Il contratto a termine nel cd. decreto Dignità

Con la disciplina del 2018 (d.l. n. 87 del 2018, c.d. decreto Dignità) si è realizzato un compromesso, volto a contenere il ricorso al contratto a termine a-causale, ovvero:

– il contratto a termine di durata continuativa non superiore a 12 mesi, resta a-causale e, quindi, può essere sottoscritto senza che sia necessario esplicitare una ragione giustificativa del termine;

– il contratto a termine di durata continuativa superiore a 12 mesi, richiede una causale di giustificazione.

La conseguenza che l’art. 19 comma 1-bis fa discendere dalla violazione di questa regola è individuata nella trasformazione del contratto in contratto a tempo indeterminato dalla data di superamento del termine di dodici mesi.

Tribunale Milano, Sez. Lav., 22 giugno 2020, n. 797

 

Protocolli Covid 19, partecipazione RSA e/o RLS e condotta antisindacale

In attuazione del d.P.C.m. 11 marzo 2020 : “va favorito il confronto preventivo con le rappresentanze sindacali nei luoghi di lavoro e per le piccole imprese le rappresentanze territoriali affinché ogni misura adottata possa essere condivisa e resa più efficace dal contributo di esperienze di persone che lavorano, in particolare degli RLS e RLST tenendo conto delle specificità di ogni singola realtà produttiva e delle situazioni territoriali”.

Il Protocollo concorda una serie di misure e, all’art. 13, prevede che sia “costituito in azienda un Comitato per l’applicazione e la verifica delle regole del Protocollo di regolamentazione con la partecipazione delle rappresentanze sindacali aziendali e delle RLS”.

Nel caso di specie, il Tribunale ha giudicato antisindacale la condotta della società che aveva  escluso dal Comitato ex art. 13 Protocollo 14 marzo 2020 delle RSA e/o RLS

Tribunale Treviso 2 luglio 2020, n. 2571

 

Temporanea inattività del lavoratore e conseguenze

Ai sensi dell’art. 2103 c.c. il lavoratore ha diritto allo svolgimento delle mansioni per le quali è stato assunto, ovvero quelle equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza diminuzione della retribuzione, a nulla rilevando che l’assegnazione di compiti differenti sia stata temporanea. La medesima disposizione fonda la pretesa del dipendente a non essere privato di ogni mansione, gravando sul datore non solo un obbligo “negativo” (rispetto delle mansioni fissate al momento dell’assunzione) ma anche positivo, dovendo lo stesso garantire al dipendente l’esecuzione della prestazione lavorativa.

La violazione dell’art. 2103 c.c. determina, pertanto, una responsabilità risarcitoria in capo al datore, fatte salve le ipotesi in cui l’inattività del lavoratore sia riconducibile ad un lecito comportamento datoriale, in quanto giustificato dall’esercizio dei poteri imprenditoriali garantiti dall’art. 41 Cost., o dei poteri disciplinari, ovvero sia stato determinato da un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.).

Ad ogni modo, l’onere della prova circa la sussistenza di tali circostanze giustificative grava sul datore.

Cass., Sez. Lav., 11 febbraio 2020, n. 12485

 

Limiti allo smartworking

In applicazione dell’art. 67 d.l. n. 18 del 2020 e dell’art. 90 d.l. n. 34 del 2020, sussistendo determinate condizioni, il lavoratore ha diritto a svolgere la propria prestazione di lavoro in modalità agile, sicché l’eventuale rifiuto da parte del datore potrebbe, ad esempio, giustificare la richiesta di un provvedimento cautelare.

La normativa summenzionata, infatti, riconosce – per il periodo di emergenza e sino alla sua cessazione (al momento 31 luglio 2020 per i lavoratori privati, 31 dicembre 2020 per quelli pubblici) – la possibilità per i dipendenti di domandare la modifica della propria prestazione sotto il profilo esecutivo.

Il “sacrificio” degli interessi datoriali non è, tuttavia, assoluto: è fatta salva l’ipotesi in cui venga dimostrata un’oggettiva impossibilità di espletamento da remoto delle mansioni proprie del lavoratore. Nell’ambito del rapporto di lavoro, infatti, non può prescindersi dal bilanciamento degli interessi contrapposti delle parti, ciò concretizzando il principio di buona fede di cui all’art. 1375 c.c.

Ne consegue che, tenuto conto della concreta situazione familiare e di salute del lavoratore, nonché delle scelte organizzative datoriali, laddove le mansioni svolte dal primo non possano oggettivamente essere espletate in modalità di lavoro agile, la legittimità del rifiuto del datore non potrebbe porsi in discussione, sebbene la tutela della salute debba essere comunque garantita mediante l’adozione di idonee misure di sicurezza.

Tribunale di Mantova 24 giugno 2020
Tribunale di Roma 20 giugno 2020

 

Lo Stato risponde dei danni per mancata inclusione dei dirigenti nella disciplina legale dei licenziamenti collettivi

Lo Stato deve ritenersi responsabile dei danni derivanti dalla tardiva attuazione della direttiva europea sui licenziamenti collettivi, nei confronti dei lavoratori appartenenti alla categoria dei dirigenti, originariamente esclusi dall’ambito di applicazione della legge nazionale (l. n. 223 del 1991).

Ai fini del risarcimento dei danni derivanti dalla mancata attuazione della direttiva, è necessaria la prova del danno-evento, del nesso di causalità, tra il danno-evento i la violazione dell’obbligo da parte dello Stato e del danno-conseguenza, consistente nelle perdite, patrimoniali e non, eventualmente subite.

Illegittimità del contratto di lavoro a termine nella P.A.

«Nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione, il dipendente che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a  tempo indeterminato posto dall’art. 36 comma 5 d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, al risarcimento  del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall’onere probatorio nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, legge 4 novembre 2010 n. 183, e quindi nella misura pari ad un’indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 legge 15 luglio 1966 n. 604».

Cass., Sez. Lav., ord. 25 giugno 2020, n. 12718

 

Possibilità di negazione dello smart working in quanto non compatibile con la specifica attività d’impresa

Nel caso di specie si trattava della richiesta di un lavoratore che svolge attività di gestione dei parcheggi per una società ad eseguire la prestazione in modalità smart working e relativo diniego del datore di lavoro in quanto le mansioni svolte dal lavoratore non sono compatibili con il lavoro a distanza; la sentenza rigetta il ricorso del lavoratore sia sul piano del periculum che del fumus

Tribunale Mantova, Sez. Lav., 26 giugno 2020, n. 1054

 

Impatto del “superminimo” a fronte del riconoscimento di una qualifica superiore

Il lavoratore dovrà dimostrare la sussistenza del titolo che autorizza il mantenimento del superminimo, escludendone perciò l’assorbimento.

Al fine di ricostruire la volontà negoziale delle parti, il giudice non può però prescindere dal comportamento tenuto dalle stesse, anche successivo alla conclusione del patto relativo al superminimo, ad esempio il fatto che l’emolumento sia rimasto inalterato nel tempo, nonostante gli incrementi retributivi intervenuti nel corso del rapporto di lavoro in occasione dei rinnovi contrattuali.

Cass., Sez. Lav., 5 giugno 2020, n. 10779