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Ai confini della realtà ! Il dipendente in malattia può svolgere attività secondarie se compatibili con lo stato patologico lamentato e con buona fede

È giustificato, nell’ambito dei principi generali di valutazione della gravità e proporzionalità della condotta con riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, il licenziamento del dipendente per una condotta a lui addebitata di tipo artificioso, in violazione degli obblighi di lealtà e correttezza, perché diretta, tramite la simulazione di uno stato fisico incompatibile con lo svolgimento dell’attività lavorativa, non solo all’assenza dal lavoro, ma anche al vantaggio indebito della partecipazione in orario di lavoro a partita di calcio già programmata (nell’ambito di campionato regionale), implicante uno sforzo fisico gravoso.

Nel licenziamento disciplinare, se un dipendente svolge un’altra attività durante un’assenza per malattia, il datore di lavoro deve dimostrare che la malattia è simulata o che l’attività potrebbe pregiudicare il ritorno al lavoro. Il dipendente può svolgere attività secondarie, purché compatibili con la malattia e con buona fede.

Cass. Civ. sez. lav., 5 settembre 2024, n. 23852 | Cass. Civ. sez. lav., 5 settembre 2024, n. 23858

 

Infortunio mortale del lavoratore: responsabilità del CdA tra conferimenti di deleghe e carenze di procedimentalizzazione dell’attività produttiva

In tema di identificazione delle responsabilità penali all’interno delle strutture organizzative complesse, la Suprema Corte ha avallato il filone ermeneutico di legittimità che riconosce: «Il fatto che nel primo caso venga in rilievo il trasferimento di alcune funzioni e nel secondo caso la concentrazione dell’esercizio (rectius: della gestione) della funzione, determina conseguenze in ordine al contenuto della delega, nonché in ordine alla modulazione dei rapporti fra deleganti e delegati. Sotto il primo profilo, ad esempio, mentre nella disciplina dettata dall’art. 16 D. Lgs. n. 81 del 2008, il conferimento del potere di spesa è requisito essenziale della delega di funzioni e deve essere adeguato in relazione alle necessità connesse allo svolgimento delle funzioni delegate, nella disciplina della delega gestoria, che, si ricorda, è rilasciata a un soggetto già investito della funzione datoriale e dei relativi poteri ivi compreso quello di spesa, non vi è analogo riferimento. Mentre non sono delegabili da parte del datore di lavoro ai sensi del citato art. 16 gli obblighi che costituiscono l’essenza della funzione datoriale e della sua preminente posizione di garante, ovvero la valutazione del rischio, preordinata alla pianificazione e predisposizione delle misure necessarie, e la nomina del responsabile del servizio prevenzione e protezione, la delega gestoria permette che tali adempimenti vengano eseguiti dal delegato, mutando il contenuto del dovere prevenzionistico facente capo ai deleganti. L’attività di vigilanza richiesta dall’art. 16, comma 3, D. Lgs. n. 81 del 2008, infatti, è differente dal dovere di controllo imposto ai membri del consiglio di amministrazione deleganti, che, come visto, dev’essere ricondotto agli obblighi civilistici di cui agli artt. 2381, comma 3, e 2932, comma 2, cod. civ. In tale ultimo caso, stante la concentrazione dell’esercizio dei poteri in capo a una figura che è già datore di lavoro, a riguardo dei deleganti si potrà configurare un dovere di verifica sulla base del flusso informativo, dell’assetto organizzativo generale e un vero e proprio potere di intervento anche con riferimento all’adozione di singole misure specifiche nel caso in cui vengano a conoscenza di fatti pregiudizievoli, id est di situazioni di rischio non adeguatamente governate. In conseguenza della violazione di tali obblighi, i membri del consiglio d’amministrazione potranno essere ritenuti responsabili di violazione alla normativa antinfortunistica e degli eventi causalmente collegati».

Contratti a termine nella P.A.: fissata l’entità del risarcimento del c.d. danno comunitario per reiterazione illegittima o abusiva

Sulla base di quale parametro deve essere stabilita l’entità del risarcimento per il danno conseguente all’illegittima reiterazione di contratti a tempo determinato presso la P.A.?

In caso di reiterazione di contratti a tempo determinato, affetti da nullità perché stipulati in assenza di ragioni giustificative, l’art. 36 TUPI esclude la possibilità di una conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

La giurisprudenza, anche alla luce dell’orientamento seguito dalla CGUE in conformità al canone dell’effettività della tutela (ordinanza del 12 dicembre 2013, C-50/13) ha riconosciuto al lavoratore il diritto ad ottenere, con esonero dall’onere di provare il concreto pregiudizio subìto, del c.d. danno comunitario nei limiti previsti dall’art. 32, co. 5, L. n. 183/2010 (successivamente trasfuso nell’art. 28 D.lgs. n. 81/2015).

In materia, tuttavia, si segnala il D.L. del 16 settembre  u.s. : con l’art. 12 di tale Decreto,  infatti, è stato modificato l’art. 36, comma 5, L. n. 165/2001, prevedendo che l’entità del risarcimento da riconoscere al lavoratore in caso di abuso nell’utilizzo del contratto a termine, in particolare in caso di stipula reiterata di contratti a termine in successione, deve essere ricompresa tra 4 e 24 mensilità dell’ultima retribuzione utile per il calcolo del TFR (anziché compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità). Il giudice, così come già chiarito dalla giurisprudenza precedente, dovrà tenere in conto la “gravità della violazione” da determinarsi, in particolare, in funzione del numero e della durata dei contratti a termine che si sono succeduti tra dipendente e P.A. Non è esclusa, infine, la possibilità per il lavoratore di provare il “maggior danno” subito.

Cass. Civ. sez. lav., 17 giugno 2024, n. 16778

 

Il dipendente ha diritto di accedere al proprio fascicolo personale anche a seguito della risoluzione del rapporto di lavoro

Il diritto di accesso ai dati personali da parte del lavoratore costituisce un principio cardine del Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR), applicabile anche nel rapporto di lavoro. Tale diritto consente al lavoratore di controllare la gestione delle informazioni che lo riguardano, garantendo una piena trasparenza nella relazione con il datore di lavoro. Il Provvedimento n. 137 del 2024 del Garante Privacy, che ha imposto una sanzione di 20.000 euro ad una Banca di Credito Cooperativo, rappresenta un esempio concreto di come le aziende possano incorrere in violazioni qualora non gestiscono in modo corretto le richieste dei soggetti interessati.

Sicurezza sul lavoro: il lavoratore non è tenuto ad indicare le norme di sicurezza violate in caso di infortunio

Il lavoratore che si sia infortunato sul luogo di lavoro deve indicare anche quali norme sulla sicurezza sono state violate dal datore?

In caso di infortunio sul lavoro, il dipendente che agisca in giudizio contro il datore per il risarcimento integrale del danno patito ha l’onere di provare il fatto costituente inadempimento e il nesso causale tra questo e il danno, ma non anche la colpa della controparte, nei cui confronti opera la presunzione di cui all’art. 1218 c.c.

Con riferimento al primo elemento è necessario considerare il contenuto dell’obbligo rispetto al quale la condotta datoriale è qualificabile come inadempimento. Posto che l’art. 2087 c.c. pone un generale obbligo di tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore, senza ulteriori specificazioni in merito alle condotte omissive e commissive destinate a sostanziarlo, l’onere gravante in capo al dipendente non potrebbe estendersi fino a comprendere anche l’individuazione delle specifiche norme di cautela violate, in special modo ove non si tratti di misure tipiche o nominati.

Cass. Civ. sez. lav., 5 aprile 2024, n. 9120

 

Licenziamento per scarso rendimento: è legittimo se costituisce notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore

Lo scarso rendimento del lavoratore può costituire il fondamento giustificativo di un licenziamento per g.m.o.?

Il licenziamento per “scarso rendimento”, secondo l’orientamento giurisprudenziale seguito dalla Corte di Cassazione, costituisce un’ipotesi di recesso per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore.

Quest’ultimo non si obbliga al raggiungimento di un risultato, ma alla messa a disposizione del datore delle proprie energie, nei modi e nei tempi stabiliti, con la conseguenza che il mancato raggiungimento del risultato prefissato non costituisce di per sé inadempimento, non essendosi il lavoratore obbligato al compimento di un’opera o di un servizio (lavoro autonomo).

Tuttavia, nel caso in cui siano individuabili dei parametri per accertare se la prestazione sia eseguita con la diligenza e professionalità medie, proprie delle mansioni affidate al lavoratore, il discostamento dai detti parametri può costituire un indice di non esatta esecuzione della prestazione e lo scarso rendimento sarebbe caratterizzato da colpa del lavoratore. Tenuto fermo quanto sopra, occorre tenere distinte le ipotesi in cui il licenziamento sia riconducibile ad una condotta addebitale al lavoratore e costituenti forme di inadempimento rispetto alla prestazione attesa dal datore, dai casi in cui il recesso datoriale è sia riferibile a ragioni organizzative dell’impresa (che possono anche ravvisarsi in condizioni attinenti alla persona del lavoratore), riconducibili a circostanze oggettive idonee a determinare la perdita di interesse del datore alla prestazione e che siano, pertanto, estranee alla sfera volitiva del dipendente. Solo per tale seconda categoria di ipotesi potrebbe parlarsi di licenziamento per g.m.o.

Cass. Civ. sez. lav., 19 aprile 2024, n. 10640

 

Licenziamenti collettivi e adeguatezza della tutela indennitaria di tipo compensativo

Nella sentenza n. 7 la Corte costituzionale riconosce che con le norme impugnate (artt. 3, comma 1, e 10 d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23) la precedente tutela del lavoratore contro il licenziamento illegittimo viene “sensibilmente ridimensionata a favore della tutela indennitaria di tipo compensativo” (par. 4.3.) e la stessa osservazione è contenuta nella successiva sent. n. 22, redatta dallo stesso giudice.

La sent. n. 7 nota altresì che con le pronunce successive al 2015 la stessa Corte ha proceduto ad un nuovo ampliamento “dell’area della tutela reintegratoria” (par. 4.6.).

La detta riduzione legislativa della tutela contro i licenziamenti illegittimi non sembra alla Corte contrastante con gli artt. 3,4 e 35 Cost. per le ragioni che la stessa Corte riconduce a quelle dichiarate dal legislatore già nell’art. 1 l. n. 92/2012 nonché nel preambolo della legge n. 23 del 2015 e che si sintetizzano nella finalità di incremento dell’occupazione.

Ma sull’utilità, ai fini interpretativi, delle dichiarazioni del legislatore contestuali alla legge stessa, con le quali egli intende convincere della bontà sociale del suo prodotto con argomenti politici e non tecnico-giuridici, non è il caso di dilungarsi. Circa i preamboli già in tempo non recente si è parlato di “vari espedienti della rettorica nella motivazione delle leggi” e di “preamboli sempre meno importanti” (27).

La moderata fiducia nella motivazione espressa delle leggi, mostrata da Nicola Lupo (28), è da condividere poiché la stessa motivazione, anche quando non contestuale, può informare più sull’occasio che sulla ratio legis, destinata a modificarsi col tempo soprattutto in ragione dell’esperienza applicativa.

La Corte richiama anche l’incensurabilità, nella sua sede giurisdizionale, dell’esercizio della discrezionalità politica del Parlamento (art. 28 l. 11 marzo 1953 n. 87), pur conoscendo la labilità della linea di confine tra il sindacato su questo tipo di discrezionalità ed un controllo di legittimità in cui le norme-parametro (quelle della Costituzione) non sono quasi mai  formulate per fattispecie chiuse bensì attraverso l’indicazione di scopi da raggiungere, attraverso espressioni linguistiche indeterminate e perciò affidate all’ampia discrezionalità dell’interprete, ossia ed anzitutto al legislatore ordinario (29).

Oltre all’impossibilità di sindacare la discrezionalità politica del legislatore la Corte nega l’efficacia vincolante, per i giudici nazionali, delle decisioni del Comitato europeo per i diritti sociali. Negazione generalmente condivisa ma che richiederebbe nel caso di specie una motivazione di merito più ampia quando quelle decisioni non vengano condivise, pur essendo state invocate dalla parte.,

Ancor meno persuasiva è la sent. n. 7 nella parte in cui esclude ogni contrasto con norme costituzionali quanto alla soppressione di ogni tutela reintegratoria nel caso di violazione di norme, legali o della contrattazione collettiva, sui licenziamenti collettivi.

La violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, nell’ambito della comunità aziendale e più specificamente di una procedura concorsuale, integra la lesione di criteri di giustizia distributiva, vale a dire del principio costituzionale di eguaglianza nel diritto privato, che può essere restaurato solo con la tutela reale.

La “sede sindacale” (in caso di conciliazione) va intesa come luogo fisico ?

Cass. Civ. sez. trib., 19 aprile 2024, n. 10665 | Cass. Civ. sez. lav., 18 gennaio 2024, n. 1975

Con le ordinanze in commento emerge un contrasto interpretativo sulla nozione di sede sindacale presso la quale possono essere validamente compiuti gli atti dispositivi del lavoratore ex art. 2113, co. 4, c.c.

Nel primo caso la Suprema Corte propende per una stringente interpretazione formale che individua la sede sindacale come luogo fisico-topografico, pervenendo alla declaratoria di nullità di un verbale di conciliazione sindacale che, benché sottoscritto con l’assistenza del sindacalista prescelto dal lavoratore, era stato concluso in un luogo (fisico) diverso dalla sede sindacale.

Nel secondo caso, speculare al primo quanto alle premesse fattuali, la Cassazione sancisce che la nozione di sede sindacale non è un requisito formale bensì funzionale ad assicurare al lavoratore la consapevolezza dell’atto dispositivo che sta per compiere, ragion per cui l’elemento da valorizzare è l’assistenza effettiva prestata dal rappresentante sindacale, indipendentemente dal luogo in cui la conciliazione sia stata conclusa.

Limiti all’esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore : legittimo il licenziamento per condotte lesive dell’immagine e della dignità datoriale

Il licenziamento del rappresentante sindacale che sui social, rivolgendosi al datore di lavoro, utilizza frasi volgari, denigratorie e prive di qualsivoglia finalità di divulgazione dell’attività sindacale, è legittimo e privo di carattere discriminatorio e/o lesivo della libertà sindacale. Il delegato sindacale, nell’esercizio del diritto di critica, è tenuto al rispetto dei limiti di continenza formale e sostanziale, oltre che della finalità di esercizio dell’attività sindacale.

Cass. Civ. sez. lav., 22 dicembre 2023, n. 35922

 

Legittima l’esclusione dalla gara d’appalto del concorrente che applica un CCNL non coerente con l’oggetto dell’appalto

Non è irragionevole la scelta della stazione appaltante di escludere da una gara pubblica un concorrente che abbia presentato un’offerta nella quale il costo del personale è stimato sulla base di un CCNL non coerente con l’oggetto dell’appalto e che non garantisce ai lavoratori un assetto retributivo conforme ai principi di proporzionalità e sufficienza garantiti dall’art. 36 della Costituzione

T.A.R. Milano Lombardia sez. I, 28 novembre 2023, n. 2830