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Spostamento del riposo settimanale e inesistenza del danno da usura psico-fisica

L’ordinamento nazionale e quello europeo non impongono che il godimento del riposo debba necessariamente avvenire nel settimo giorno consecutivo di lavoro, sicché il dipendente non potrebbe lamentare un danno da usura psico-fisica fondando la propria domanda su tale circostanza (recte mancata coincidenza del riposo con il settimo giorno consecutivo di lavoro). Sul punto è opportuno distinguere tra l’ipotesi in cui sia intervenuta la totale soppressione del riposo settimanale e quella in cui sia operato un mero spostamento temporale dello stesso. Infatti, qualora la fruizione del risposo avvenga oltre il settimo giorno, ma nel rispetto della disciplina contrattuale e della normativa inerente alla specifica organizzazione del tempo di lavoro, al dipendente, ferma la necessità di assicurare il riposo compensativo per l’attività lavorativa svolta nel settimo giorno, sarà dovuta la maggiorazione del compenso prevista in sede di contrattazione collettiva in ragione della maggiore gravosità del lavoro prestato. Diversamente, la risarcibilità dell’asserito danno da usura psico-fisica presuppone che la prestazione nel settimo giorno consecutivo sia stata resa in assenza di previsioni legittimanti e in violazione degli artt. 36 Cost. e 2109 c.c., in quanto solo l’ipotesi di perdita definitiva del riposo settimanale è ritenuta ex se pregiudizievole per il lavoratore.

Cass., sez. lav., 2 agosto 2025, n. 22289

Possibilità di ricorrere al lavoro somministrato anche per soddisfare esigenze stabili e non temporanee dell’utilizzatore

La somministrazione di lavoro a tempo indeterminato con missione a tempo indeterminato presso l’utilizzatore esula dall’ambito applicativo del Direttiva 2008/104/CE la quale si applica unicamente alla diversa fattispecie della somministrazione di lavoro a termine. Tale tipologia contrattuale soddisfa, infatti, il principio in base al quale i contratti di lavoro a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro enunciato sia nel considerando n. 15 della Direttiva 2008/104/CE, sia nell’art. 1 del d.lgs. 81/2015.

È ammissibile il ricorso alla somministrazione di lavoro a tempo indeterminato con missione a tempo indeterminato presso l’utilizzatore anche per il soddisfacimento di esigenze stabili e non meramente temporanee dell’utilizzatore.

Trib. Bari Sez. Lav. n. 3213 del 17.9.2025

Totale illegittimità della somministrazione lavoro nel caso in cui l’utilizzatore sia privo di DVR idoneo

È illegittimo il contratto di somministrazione di lavoro nell’ambito del quale non sia stato predisposto, dall’utilizzatore, adeguato documento di valutazione dei rischi (DVR), che tenga conto anche della particolare condizione lavorativa in cui si troverà ad operare il lavoratore somministrato. La violazione comporta la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato, a tempo indeterminato, tra il lavoratore somministrato e l’utilizzatore, con decorrenza dell’inizio della somministrazione.

Obbligo di dimissioni telematiche anche per il recesso del lavoratore in costanza di periodo di prova

L’art. 26 d.lgs. 151/2015 – ai cui sensi le dimissioni devono essere rassegnate, a pena di inefficacia, esclusivamente con le previste modalità telematiche (comma 1), con possibilità di revoca con le medesime modalità entro sette giorni (comma 2) – trova piena applicazione anche in ipotesi di dimissioni rassegnate durante il periodo di prova, uniche deroghe a tale regola essendo previste per il lavoro domestico e per quello presso le pubbliche amministrazioni (commi 7 e 8-bis). È pertanto valida la revoca delle dimissioni esercitata dal lavoratore in prova non rilevando in senso contrario le indicazioni contenute nella circolare ministeriale n. 12 del 4 marzo 2016, atto interno alla p.A., sprovvisto di rilevanza normativa.

Cass. n. 24991 dell’11.9.2025

 

I limiti dei controlli tramite agenzia investigativa nei confronti del dipendente malato secondo la Cassazione

Con la pronuncia in commento la Corte di cassazione torna ad affrontare lo spinoso tema dei limiti ai controlli effettuati tramite agenzia investigativa per verificare il rispetto delle fasce di reperibilità da parte del dipendente durante le assenze per malattia.

Massima

Al di là della qualificazione come difensivi o meno, i controlli effettuati tramite agenzia investigativa nei confronti di un dipendente in malattia, ben oltre le fasce di reperibilità, con pedinamento per strada e coinvolgimento di familiari e terzi, sono certamente invasivi della vita privata e violano i principi di proporzionalità e minimizzazione stabiliti dal nostro ordinamento.

Cass. Civ. sez. lav., 20 agosto 2025, n. 23578

 

Geolocalizzazione e tutela dei lavoratori in smart-working

Può il datore svolgere dei controlli – mediante uno specifico applicativo che richiede il consenso dei dipendenti che lo utilizzano – per verificare la compatibilità della posizione geografica dalla quale gli stessi svolgono la propria prestazione in modalità agile rispetto a quanto indicato nell’accordo individuale di lavoro agile?

Innanzitutto, è necessario rammentare che la prestazione lavorativa in modalità agile, differentemente dallo svolgimento dell’attività lavorativa presso la sede datoriale, è tipicamente caratterizzata da una flessibilità che, fatta salva l’eventuale operatività di fasce di reperibilità, attiene sia al luogo che al tempo del relativo svolgimento (art. 18, comma 1, l. n. 81/2017). Al datore non sono, tuttavia, precluse eventuali verifiche sull’adempimento della prestazione lavorativa svolta in modalità agile, ad esempio mediante la richiesta di report periodici sull’attività svolta. Nel caso in cui vengano impiegati strumenti tecnologici dai quali derivi anche solo la possibilità di controllare a distanza l’attività dei lavoratori in modalità agile, è necessario sempre fare riferimento all’art. 4 St. Lav., dal momento che la Legge sul lavoro agile richiama espressamente i limiti, le condizioni e le procedure di garanzia di tale ultimo articolo (art. 21 l. n. 81/2017), dovendosi escludere la rilevanza del fatto che l’applicativo utilizzato richieda il consenso al dipendente per procedere alla geolocalizzazione. A ciò deve aggiungersi, sotto il profilo del trattamento dei dati personali, che nel lavoro in modalità agile la linea di confine tra l’ambito lavorativo e professionale e quello strettamente privato non può sempre essere tracciata in modo netto, sicché non potrebbe essere prefigurato l’annullamento di ogni aspettativa di riservatezza del lavoratore. L’esigenza di assicurare che la prestazione lavorativa dei dipendenti in modalità agile venga effettivamente resa presso le sedi indicate nell’accordo di riferimento non può, quindi, giustificare ogni forma di interferenza nella vita privata (i.e. raccolta e trattamento dell’informazione relativa alla specifica località in cui il lavoratore si trova), ciò ponendosi in contrasto, oltre che con l’art. 4 St. Lav., anche con la normativa in materia di privacy. (Cfr.: Garante della privacy, provv.13 marzo 2025, n. 135).

Il repêchage tramite una proposta di adibizione a mansioni inferiori con riduzione della retribuzione

Con l’ordinanza n. 19556 del 15 luglio 2025, la Corte di cassazione ha nuovamente confermato l’esistenza dell’obbligo di repêchage anche verso mansioni inferiori in occasione di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Secondo la Corte, l’obbligo può essere assolto mediante una proposta di accordo modificativo sottoposta al lavoratore. Se tale proposta è rifiutata, il licenziamento del lavoratore può considerarsi legittimo. La pronuncia in commento si caratterizza per la precisazione della strutturale diversità tra la modificazione delle mansioni che avviene ex art. 2103 c.c. e quella dovuta in adempimento del repêchage. Nel secondo caso, infatti, secondo i giudici di legittimità, è escluso che il datore di lavoro debba rispettare i limiti dati dalla norma codicistica, ben potendo quindi proporre, senza limiti, mansioni di inquadramento inferiore con contestuale riduzione della retribuzione.

Dati personali, controlli a distanza ed e-mail aziendale

Come precisato dall’Autorità Garante della privacy, il contenuto dei messaggi di posta elettronica – come pure i dati esteriori delle comunicazioni e i documenti allegati – riguardano forme di corrispondenza assistite da garanzie di segretezza, oggetto di tutela anche costituzionale (15 Cost.), sicché anche nel contesto lavorativo, con riferimento all’indirizzo di posta aziendale o istituzionale, sussiste una legittima aspettativa di riservatezza in relazione ai messaggi oggetto di corrispondenza (provv. 4 dicembre 2019, n. 216).

La conservazione dei metadati relativi all’utilizzo della posta elettronica dei dipendenti, ancorché sul presupposto della sua necessità per finalità di sicurezza informatica, può comportare un indiretto controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, il che è consentito nei limiti ed alle condizioni fissate dall’art. 4 St. Lav.

La generalizzata raccolta e conservazione, per un periodo esteso, dei metadati relativi all’utilizzo della posta elettronica da parte dei dipendenti non possono essere ricondotte all’ambito di applicazione del secondo comma dell’art. 4 rientrando, piuttosto, tra gli strumenti funzionali alla tutela dell’integrità del patrimonio informativo del titolare nel suo complesso, di cui al comma 1 del medesimo articolo, con conseguente operatività delle procedure di garanzia ivi previste. Il trattamento in questione, dunque, è stato ritenuto in contrasto non solo con la disciplina di settore in materia di controlli a distanza, ma anche con la normativa in materia di protezione dei dati personali.

Si è escluso, infine, che possa essere invocato, ai fini della liceità del complessivo trattamento, il perseguimento di un legittimo interesse in quanto, in linea generale, i trattamenti conseguenti all’impiego degli strumenti tecnologici nei luoghi di lavoro, da cui può derivare un controllo indiretto sull’attività lavorativa, trovano la propria base giuridica nella disciplina di settore di cui all’art. 4 St. Lav.

Superamento dei minimi retributivi previsti dal CCNL ed eventuale ripetizione dell’indebito

La natura corrispettiva della retribuzione determina la presunzione della natura retributiva dell’erogazione datoriale ripetuta nel tempo anche se superiore a quella negozialmente prevista. In ragione di tale presunzione (relativa), spetta al solvens dimostrare l’effettivo e concreto verificarsi di un errore, oppure l’insussistenza o l’inidoneità giuridica dei fatti che il lavoratore abbia eventualmente addotto quale fondamento della persistente natura retributiva dell’attribuzione economica. Conseguentemente, qualora il datore richieda la restituzione delle somme erogate in eccesso rispetto alle retribuzioni minime previste dal contratto collettivo, non potrà limitarsi ad allegare che il suddetto contratto prevede (per le prestazioni svolte) retribuzioni inferiori, ma deve dimostrare che la maggiore retribuzione erogata è stata frutto di un errore, essenziale e riconoscibile dell’altro contraente. (Cfr.: App. Firenze, sez. lav., 28 marzo 2025, n. 204; Cass., sez. lav., 13 settembre 2018, n. 22387).

L’assenza per Covid non si computa nel periodo di comporto e il Giudice può desumere la relativa assenza anche per “presunzioni”

Il Supremo Collegio ha riconosciuto la possibilità di dimostrare la natura delle assenze tramite presunzioni semplici ex art. 2729 c.c., attribuendo rilievo probatorio alle risultanze istruttorie raccolte in giudizio, sul punto, la giurisprudenza e la dottrina hanno più volte ribadito che la prova per presunzioni non richiede l’unicità della fonte, essendo sufficiente un insieme di elementi gravi, precisi e concordanti, anche dedotti da dati di comune esperienza, purché rapportati al caso concreto.

In applicazione di tali principi, la Cassazione ha ritenuto che le assenze dovute al Covid-19 non possano essere computate ai fini del comporto, dichiarando di conseguenza la nullità del licenziamento intimato per il presunto superamento del periodo massimo di assenza.

Il dato singolare è che la Suprema Corte si sia astenuta dal riferire in che misura le suddette presunzioni siano in grado di superare il dettato “speciale” (e tassativo) della normativa emergenziale sul Covid-19 che, appunto, prevedeva lo scomputo delle sole giornate di malattia effettivamente “certificate” come dovute a Covid-19.

Cassazione ordinanza n. 22552/25