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Licenziamento disciplinare: il giudice può individuare solo in alcuni episodi il comportamento che giustifica la sanzione espulsiva

In tema di licenziamento per giusta causa, quando vengano contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, pur dovendosi escludere che il giudice di merito possa esaminarli atomisticamente, attesa la necessaria considerazione della loro concatenazione ai fini della valutazione della gravità dei fatti, non occorre che l’esistenza della “causa” idonea a non consentire la prosecuzione del rapporto sia ravvisabile esclusivamente nel complesso dei fatti ascritti, ben potendo il giudice – nell’ambito degli addebiti posti a fondamento del licenziamento dal datore di lavoro – individuare anche solo in alcuni o in uno di essi il comportamento che giustifica la sanzione espulsiva, se lo stesso presenti il carattere di gravità richiesto dall’art. 2119, c.c..

Corte appello Milano sez. lav., 18 giugno 2019, n. 1265

 

I contributi pagati dall’appaltatore fittizio salvano il committente datore di lavoro

In tema di interposizione fittizia di manodopera nell’appalto di opere o servizi, si applica il disposto del d.lgs. n. 276 del 2003, art. 27, comma 2, dettato in tema di somministrazione irregolare e richiamato dall’art. 29, comma 3-bis, che disciplina l’appalto illecito, secondo cui tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata. Il suddetto art. 27, cit., va collegato alla disciplina dettata dall’art. 1180, comma 1, c.c., e impone la verifica in concreto dell’avvenuta soddisfazione delle pretese contributive formulate dagli enti previdenziali.

Cass. ord. 8.7.2019 n° 18278

 

Richiesta del certificato penale e del certificato carichi pendenti ai fini della assunzione

La richiesta datoriale del certificato relativo ai precedenti penali del dipendente è considerata legittima nella misura in cui sia ragionevolmente necessario subordinare l’assegnazione di determinate mansioni allo stato di incensuratezza del lavoratore in virtù della peculiarità dell’attività da svolgere (Cass. 29 novembre 1999, n. 13354; Cass. 30 marzo 1998, n. 3343; Trib. Milano 8 maggio 1982; Pret. Milano 17 giugno 1980).

Sul principio di immodificabilità della motivazione del licenziamento

Il datore di lavoro non può addurre in giudizio, a giustificazione del licenziamento, fatti diversi da quelli già indicati nella motivazione enunciata al momento dell’intimazione del recesso, ma soltanto dedurre mere circostanze confermative o integrative che non mutino la oggettiva consistenza storica dei fatti anzidetti; il principio di contestualità ed immodificabilità della motivazione ha natura imperativa e la sua violazione è sanzionata con l’inefficacia del licenziamento.

In caso di azione giudiziale proposta per dedurre un vizio del licenziamento diverso da quello fatto valere con un precedente ricorso, il termine di decadenza di cui all’art. 6, comma 2, l. n. 604 del 1966, come sostituito dall’art. 32, comma 1, l. n. 183 del 2010 e modificato dall’art. 1, comma 38, l. n. 92 del 2012, decorre comunque dalla data di spedizione dell’impugnativa del licenziamento, senza che rilevi che tale azione si fondi su motivi di recesso nuovi, addotti nel corso del primo giudizio. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto irrilevante, ai fini della decadenza, che le circostanze poste a fondamento dell’azione di nullità del licenziamento per motivi discriminatori fossero emerse in sede di libero interrogatorio del datore di lavoro, nel giudizio avente ad oggetto l’annullabilità dello stesso licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo).

Cass. Sez. Lav. n° 7851 del 20.3.2019

 

Licenziamento per giusta causa : legge 104 e assistenza parziale

In tema di abuso del diritto per utilizzo improprio del permesso di cui all’art. 33, l. n. 104 del 1992: “ove l’esercizio del diritto soggettivo non si ricolleghi alla attuazione di un potere assoluto e imprescindibile, ma presupponga un’autonomia comunque collegata alla cura di interessi, soprattutto ove si tratti – come nella specie – di interessi familiari tutelati nel contempo nell’ambito del rapporto privato e nell’ambito del rapporto con l’ente pubblico di previdenza, il non esercizio o l’esercizio secondo criteri diversi da quelli richiesti dalla natura della funzione può considerarsi abuso in ordine a quel potere pure riconosciuto dall’ordinamento.

 

L’abuso del diritto, così inteso, può dunque avvenire sotto forme diverse, a seconda del rapporto cui esso inerisce, sicché, con riferimento al caso di specie, rileva la condotta contraria alla buona fede, o comunque lesiva della buona fede altrui, nei confronti del datore di lavoro, che in presenza di un abuso del diritto al permesso si vede privato ingiustamente della prestazione lavorativa del dipendente e sopporta comunque una lesione (la cui gravità va valutata in concreto) dell’affidamento da lui riposto nel medesimo, mentre rileva l’indebita percezione dell’indennità e lo sviamento dell’intervento assistenziale nei confronti dell’ente di previdenza erogatore del trattamento economico”.

Tb. Bari Sez. Lav. 30.9.2019

Il tempo-tuta “compensabile” con pause retribuite

Il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale deve ritenersi incluso nell’orario di lavoro nel caso in cui esso sia assoggettato al potere di conformazione del datore. Tuttavia, è indispensabile procedere ad una valutazione globale della disciplina osservata in seno all’organizzazione aziendale, potendosi riscontrare, ove risulti che il lavoratore goda di un trattamento di miglior favore rispetto a quello normativo, una compensazione della mancata inclusione nell’orario retribuito del c.d. tempo tuta.

Cass. Sez. Lav. 28.3.2018 n° 7738

 

 

Esercizio della clausola di gradimento

In linea di principio, l’esercizio della cd. clausola di gradimento da parte del datore di lavoro deve pur sempre essere soggetta a valutazione nell’ottica dei principi generali di correttezza e buona fede ex artt.1175, 1375 c.c., non potendo certo tradursi detto gradimento in mero ed ingiustificato arbitrio in danno di un lavoratore.

Tb. Reggio Calabria Sez. Lavoro 30.5.2019 decr. rigetto n° 10071

Il rifiuto della prestazione non obbliga sempre alla retribuzione

Secondo l’orientamento costante della giurisprudenza, il datore di lavoro non può unilateralmente ridurre o sospendere l’attività lavorativa, specularmente rifiutando di corrispondere al dipendente la retribuzione.

Tale condotta, infatti, integra un inadempimento contrattuale: data la sinallagmaticità del rapporto di lavoro, il rifiuto di una parte di eseguire la dovuta prestazione può essere opposto all’altra solo qualora questa ometta di effettuare la propria, il che non si verifica qualora il lavoratore venga impedito dalla unilaterale volontà del datore.

Tuttavia, è fatta salva la possibilità per la parte datoriale di provare l’impossibilità dell’accettazione per motivi sopravvenuti, non allo stesso imputabili, in ragione dei quali la sospensione risulta essere  la imprevedibile e inevitabile, con esonero dall’obbligazione retributiva.

Si precisa che a tale fine non rilevano eventuali carenze di programmazione o di organizzazione aziendale, ovvero contingenti difficoltà di mercato.

Cass. Sez. Lav. n° 14419 del 27.5.2019

La Corte di giustizia sul mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda

La Corte di giustizia dell’Unione Europea ha dichiarato che la direttiva 2001/23/CE del Consiglio, del 12 marzo 2001, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti, e in particolare il suo articolo 2, paragrafo 1, lettera d), deve essere interpretata nel senso che una persona che ha stipulato, con il cedente, un contratto di collaborazione, ai sensi della normativa nazionale di cui al procedimento principale, può essere considerata come «lavoratore» e quindi beneficiare della protezione che tale direttiva concede, a condizione, tuttavia, che essa sia tutelata in quanto lavoratore da detta normativa e che benefici di un contratto di lavoro alla data del trasferimento, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.

La direttiva 2001/23, in combinato disposto con l’art. 4, par. 2, TUE, deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale la quale preveda che, in caso di trasferimento ai sensi di tale direttiva, e per il fatto che il cessionario è un comune, i lavoratori interessati debbano, da un lato, partecipare ad una procedura di concorso pubblico e, dall’altro, costituire un nuovo rapporto contrattuale con il cessionario.

Corte di Giustizia UE 13.6.2019 n° 317

 

Ripartizione dell’onere probatorio nel licenziamento orale

“Il lavoratore subordinato che impugni un licenziamento allegando che è stato intimato senza l’osservanza della forma prescritta ha l’onere di provare, quale fatto costitutivo della sua domanda, che la risoluzione del rapporto di lavoro è ascrivibile alla volontà del datore di lavoro, anche se manifestata con comportamenti concludenti; la mera cessazione nell’esecuzione delle prestazioni non è circostanza di per sé sola idonea a fornire tale prova. Ove il datore di lavoro eccepisca che il rapporto si è risolto per le dimissioni del lavoratore, il giudice sarà chiamato a ricostruire i fatti con indagine rigorosa – anche avvalendosi dell’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio ex art. 421, c.p.c. – e solo nel caso perduri l’incertezza probatoria farà applicazione della regola residuale desumibile dal comma 1 dell’art. 2697, c.c., rigettando la domanda del lavoratore che non ha provato il fatto costitutivo della sua pretesa”.

Tb. Bari Sez. Lav. 13.6.2019 – in senso conforme Cass. n° 3822 / 2019