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Licenziamento collettivo, mansioni d’assegnazione e professionalità acquisita

Qualora il licenziamento collettivo per riduzione di personale interessi in modo esclusivo un’unità produttiva o uno specifico settore dell’azienda, il datore non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti ivi impiegati ove i medesimi siano idonei – per il pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell’azienda – ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri settori.

Cass., Sez. Lav., 4 marzo 2021, n. 6068

 

Genitori e DAD : l’ incompatibilità della prestazione con lo smart-working

Dopo il silenzio legislativo successivo al 31 dicembre 2020, il legislatore (d.l. n. 30/2021) ha nuovamente previsto – fino al 30 giugno 2021 – la possibilità per il lavoratore dipendente, genitore di figlio convivente minore di 16, di richiedere che l’esecuzione della propria prestazione avvenga in modalità agile per un periodo corrispondente, in tutto o in parte, alla durata della sospensione dell’attività didattica in presenza, alla durata dell’infezione da Covid-19 del figlio (ovunque verificatesi) nonché alla durata della quarantena del medesimo, disposta dal Dipartimento di prevenzione dell’ ASL territorialmente competente a seguito di contatto, a prescindere dal luogo in cui esso sia avvenuto.

Il legislatore ha considerato anche l’ipotesi di una sostanziale incompatibilità delle mansioni svolte con lo smart-working: il lavoratore, con figlio minore di 14 anni o con disabilità grave, potrà astenersi dal lavoro per il medesimo periodo suddetto, percependo un’indennità pari al 50% del trattamento retributivo. Ciò, tuttavia, nei limiti di spesa indicati (282,8 milioni di euro per l’anno 2021).

Qualora il figlio abbia un’età compresa tra i 14 ed i 16 anni, invece, alle medesime condizioni sopra riportate, l’astensione dal lavoro non prevede la corresponsione di retribuzione o di un’indennità, né il riconoscimento di contribuzione figurativa. È fatto divieto di licenziamento ed è riconosciuto il diritto alla conservazione del posto di lavoro

Il licenziamento per inidoneità alla mansione rientra nel blocco dei licenziamenti Covid 19

Il licenziamento per sopravvenuta inabilità ricompreso nell’ambito applicativo del blocco dei licenziamenti per g.m.o. di cui all’art. 46 d.l. n. 18 del 17 marzo 2020, perché tale motivo di licenziamento è indubbiamente oggettivo (non è disciplinare) nella dicotomia dell’art. 3 della l. n. 604/1966, ma anche perché, in concreto, per tale licenziamento valgono le stesse ragioni di tutela economica e sociale che stanno alla base di tutte le altre ipotesi di licenziamento per G.M.O. che la normativa emergenziale ha inteso espressamente impedire.

Il licenziamento irrogato in violazione dell’art. 46 d.l. n. 18 del 17 marzo 2020 è nullo, in quanto contrario a norme imperative, il rimedio conseguente va individuato nell’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 23/2015, che prevede la massima sanzione (reintegra e risarcimento) indipendentemente dal numero dei dipendenti occupati presso il datore di lavoro.

Tribunale di Ravenna – Sez. Lavoro 7.1.2021

Il divieto dei licenziamenti economici in pendenza di pandemia si applica (anche) ai dirigenti

Il divieto transitorio dei licenziamenti individuali riconducibili ad esigenze economiche e organizzative aziendali introdotto dall’art. 46 del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, ai sensi del quale è preclusa al datore di lavoro la facoltà di “recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604”, si applica anche al rapporto di lavoro dei dirigenti.

Tribunale di Roma – Sez. Lavoro 26.2.2021

Obbligo di vaccino

Il Tribunale di Belluno ha rigettato il ricorso di alcuni infermieri e operatori sanitari di una casa di riposto posti in ferie “forzate” dalla direzione della r.s.a. a seguito del rifiuto di sottoporsi alla somministrazione del vaccino Pfizer.

Per il giudice bellunese la permanenza dei ricorrenti nel luogo di lavoro comporterebbe per il datore di lavoro la violazione dell’obbligo di cui all’art. 2087 c.c. che gli impone di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica dei suoi dipendenti.

È infatti notorio, scrive il giudice, che il vaccino costituisce misura idonea a tutelare l’integrità fisica degli individui a cui è somministrato prevenendo l’evoluzione della malattia. I ricorrenti, operatori sanitari impiegati in mansioni a contatto con persone che accedono al loro luogo di lavoro, corrono il rischio, in assenza di vaccino, di essere contagiati. Per tale ragione la loro permanenza nel luogo di lavoro comporterebbe la violazione dell’obbligo di cui al citato art. 2087 c.c.

Per il giudice inoltre, nel caso di specie, sull’eventuale interesse del prestatore ad usufruire di un diverso periodo di ferie prevale l’esigenza del datore di lavoro di osservare il disposto dell’art. 2087 c.c.

Tribunale di Belluno – Sez. Lavoro 21.3.2021

Il divieto di licenziamento in epoca COVID vale anche per i Dirigenti

Con ordinanza del 26.2.2021, il Tribunale di Roma – Sez. Lavoro ha ordinato la reintegrazione di un dirigente licenziato il 23 Luglio 2020, ritenendo il licenziamento nullo per violazione del divieto imposto dalla normativa emergenziale.

Il Giudice, in particolare, ha esteso la portata preclusiva di cui all’art. 46 del D.L. n° 18 / 2020, prorogato dal cd. “Decreto Rilancio”, anche verso i licenziamenti da cd. GMO verso i Dirigenti, motivando, diversamente, il contrasto con l’art. 3 Cost. e avuto riguardo del criterio di solidarietà sociale cui è ispirata la norma di riferimento.

 

Il risarcimento del danno da dequalificazione professionale non è considerato reddito soggetto a tassazione

Non costituisce reddito soggetto a tassazione il risarcimento del danno non patrimoniale alla professionalità del lavoratore. E ciò perché si tratta di una lesione che rientra nel danno emergente e non nel lucro cessante. Questo quanto affermato dai Supremi Giudici con l’ordinanza n. 2472 depositata il 3 febbraio 2021.

La ricorrente lamentava l’erronea decisione della Corte di merito per non aver ritenuto che il danno liquidato al lavoratore (avvenuto espressamente a titolo di danno non patrimoniale alla professionalità) non avesse carattere retributivo; più precisamente la Società ricorrente sottolineava davanti alla Corte di Cassazione la violazione e falsa applicazione degli artt. 6 e 48 del TUIR, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., per non aver considerato i giudici di merito che il danno da dequalificazione professionale è da ricondurre nell’alveo del “lucro cessante” e, in quanto tale, soggetto a tassazione, e non in quello del “danno emergente“, per cui la somma liquidata era fiscalmente rilevante ex art. 6 co. 2 TUIR perchè riconducibile al ristoro del mancato conseguimento di redditi ovvero perché ne costituiva sostituzione o surrogazione nella misura in cui era configurabile nella medesima categoria del reddito perduto o sostituito.

Sul punto la Corte si era già espressa con precedenti pronunce (vedi Cass. n. 5108/2019n. 2549/2011) sostenendo che in tema di imposte sui redditi da lavoro dipendente, le somme percepite dal contribuente a titolo risarcitorio sono soggette a tassazione solo se, ed entro i limiti in cui, siano volte a reintegrare un danno concretatosi nella mancata percezione di redditi (cd. lucro cessante), mentre non sono assoggettabili a tassazione quelle intese a riparare un pregiudizio di natura diversa (cd. danno emergente).

Nel caso di specie i Giudici di legittimità conformandosi a quanto già precedentemente sostenuto, rigettavano il motivo di ricorso avanzato dal ricorrente, sottolineando che, in tema di dequalificcazione professionale, è risarcibile il danno non patrimoniale ogni qual volta si verifichi una grave violazione dei diritti del lavoratore (considerando la durata della reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale), tale tipologia di pregiudizio appartiene alla fattispecie del danno emergente e non del lucro cessante, per cui non è considerato reddito soggetto a tassazione.

Cass., Sez. Lav., 3 febbraio 2021, n° 2472

 

Vaccino e obbligo (o meno) del lavoratore. Primi orientamenti

Tenuto conto della difficoltà di affermare la legittimità della scelta del datore di porre come obbligatoria la vaccinazione Covid-19, l’eventuale rifiuto del dipendente non consente la configurabilità di una causa soggettiva legittimante il licenziamento del lavoratore: l’esercizio di un diritto, infatti, non potrebbe configurare un comportamento disciplinarmente rilevante (qui iure suo utitur neminem laedit).

La mancata vaccinazione, tuttavia, potrebbe rendere obbiettivamente non utilizzabile la prestazione del lavoratore, ad esempio in contesti sanitari ove il contatto tra dipendenti e pazienti è inevitabile.

Qualora le mansioni non possano essere svolte in modalità agile (smart-working) e il dipendente non sia altrimenti impegabile in seno all’azienda, potrà prospettarsi la sospensione dal lavoro senza diritto alla retribuzione.

Opinabile sarebbe anche la legittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Anche ove non operasse il divieto di recesso datoriale – attualmente operante fino al 31 marzo – la fattispecie configurarerebbe una impossibilità sopravvenuta temporanea della prestazione, con conseguente applicabilità della disciplina codicistica di cui agli artt. 1256, comma 2, e 1464 c.c., dovendosi bilanciare l’interesse del datore alla cessazione del rapporto e quello del lavoratore alla conservazione dell’occupazione.

Ulteriore alternativa potrebbe essere quella del ricorso alla CIG-Covid, tenuto conto che la “causa-Covid” include tutte le ipotesi in cui, per ragioni oggettive, non sia temporaneamente possibile avvalersi della prestazione del lavoratore, pur essendo tale impossibilità riconducibile all’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito.

Illegittimità del contratto a tempo determinato e responsabilità datoriale post sentenza

In tema di conversione del contratto a tempo determinato, secondo la condivisibile giurisprudenza di legittimità il carattere omnicomprensivo della indennità risarcitoria, valorizzato dalla norma di interpretazione autentica (di cui alla l. n. 92/2012), comporta che essa ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, ossia è esaustiva di tutti i danni che sono conseguenza, sul piano retributivo e contributivo, della perdita del lavoro in relazione al periodo decorrente dalla cessazione del rapporto a termine alla sentenza che ne ha disposto la ricostituzione.

Per il periodo successivo alla sentenza, in ipotesi di persistente inadempimento all’obbligo datoriale di ripristino del rapporto, la misura della responsabilità datoriale sarà determinata secondo gli ordinari criteri e non nella misura forfettizzata stabilità dalla l. n. 183 del 2010, art. 32.

Cass., Sez. Lav., 18 gennaio 2021, n° 702

 

Giusta causa di licenziamento nonostante l’adempimento dell’obbligo di isolamento fiduciario al rientro dall’estero

Nel caso in esame, il giudice ha accertato la sussistenza di una giusta causa di licenziamento osservando che la condotta della dipendente, consistita nel porsi colpevolmente nella necessità di rimanere assente dal lavoro per 14 giorni, seppur dovuta alla necessità di adempiere l’obbligo pubblicistico di isolamento fiduciario al termine del periodo feriale trascorso all’estero, non può considerarsi giustificata. Sotto il profilo oggettivo, assume rilievo la durata dell’assenza e le conseguenti disfunzioni verosimilmente derivate in pregiudizio dell’organizzazione dell’attività produttiva esercitata dal datore di lavoro; in ordine al profilo soggettivo, è stata considerata la noncuranza che la dipendente ha manifestato nei confronti delle esigenze dell’azienda cui ha anteposto i propri interessi personali.

Tribunale Trento, ord. 21 gennaio 2021

In senso conforme :

Cass., Sez. Lav., 5 luglio 2019, n° 18195

Cass., Sez. lLav., 25 ottobre 2018, n° 27082