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I limiti dei controlli tramite agenzia investigativa nei confronti del dipendente malato secondo la Cassazione

Con la pronuncia in commento la Corte di cassazione torna ad affrontare lo spinoso tema dei limiti ai controlli effettuati tramite agenzia investigativa per verificare il rispetto delle fasce di reperibilità da parte del dipendente durante le assenze per malattia.

Massima

Al di là della qualificazione come difensivi o meno, i controlli effettuati tramite agenzia investigativa nei confronti di un dipendente in malattia, ben oltre le fasce di reperibilità, con pedinamento per strada e coinvolgimento di familiari e terzi, sono certamente invasivi della vita privata e violano i principi di proporzionalità e minimizzazione stabiliti dal nostro ordinamento.

Cass. Civ. sez. lav., 20 agosto 2025, n. 23578

 

Geolocalizzazione e tutela dei lavoratori in smart-working

Può il datore svolgere dei controlli – mediante uno specifico applicativo che richiede il consenso dei dipendenti che lo utilizzano – per verificare la compatibilità della posizione geografica dalla quale gli stessi svolgono la propria prestazione in modalità agile rispetto a quanto indicato nell’accordo individuale di lavoro agile?

Innanzitutto, è necessario rammentare che la prestazione lavorativa in modalità agile, differentemente dallo svolgimento dell’attività lavorativa presso la sede datoriale, è tipicamente caratterizzata da una flessibilità che, fatta salva l’eventuale operatività di fasce di reperibilità, attiene sia al luogo che al tempo del relativo svolgimento (art. 18, comma 1, l. n. 81/2017). Al datore non sono, tuttavia, precluse eventuali verifiche sull’adempimento della prestazione lavorativa svolta in modalità agile, ad esempio mediante la richiesta di report periodici sull’attività svolta. Nel caso in cui vengano impiegati strumenti tecnologici dai quali derivi anche solo la possibilità di controllare a distanza l’attività dei lavoratori in modalità agile, è necessario sempre fare riferimento all’art. 4 St. Lav., dal momento che la Legge sul lavoro agile richiama espressamente i limiti, le condizioni e le procedure di garanzia di tale ultimo articolo (art. 21 l. n. 81/2017), dovendosi escludere la rilevanza del fatto che l’applicativo utilizzato richieda il consenso al dipendente per procedere alla geolocalizzazione. A ciò deve aggiungersi, sotto il profilo del trattamento dei dati personali, che nel lavoro in modalità agile la linea di confine tra l’ambito lavorativo e professionale e quello strettamente privato non può sempre essere tracciata in modo netto, sicché non potrebbe essere prefigurato l’annullamento di ogni aspettativa di riservatezza del lavoratore. L’esigenza di assicurare che la prestazione lavorativa dei dipendenti in modalità agile venga effettivamente resa presso le sedi indicate nell’accordo di riferimento non può, quindi, giustificare ogni forma di interferenza nella vita privata (i.e. raccolta e trattamento dell’informazione relativa alla specifica località in cui il lavoratore si trova), ciò ponendosi in contrasto, oltre che con l’art. 4 St. Lav., anche con la normativa in materia di privacy. (Cfr.: Garante della privacy, provv.13 marzo 2025, n. 135).

Il repêchage tramite una proposta di adibizione a mansioni inferiori con riduzione della retribuzione

Con l’ordinanza n. 19556 del 15 luglio 2025, la Corte di cassazione ha nuovamente confermato l’esistenza dell’obbligo di repêchage anche verso mansioni inferiori in occasione di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Secondo la Corte, l’obbligo può essere assolto mediante una proposta di accordo modificativo sottoposta al lavoratore. Se tale proposta è rifiutata, il licenziamento del lavoratore può considerarsi legittimo. La pronuncia in commento si caratterizza per la precisazione della strutturale diversità tra la modificazione delle mansioni che avviene ex art. 2103 c.c. e quella dovuta in adempimento del repêchage. Nel secondo caso, infatti, secondo i giudici di legittimità, è escluso che il datore di lavoro debba rispettare i limiti dati dalla norma codicistica, ben potendo quindi proporre, senza limiti, mansioni di inquadramento inferiore con contestuale riduzione della retribuzione.

Dati personali, controlli a distanza ed e-mail aziendale

Come precisato dall’Autorità Garante della privacy, il contenuto dei messaggi di posta elettronica – come pure i dati esteriori delle comunicazioni e i documenti allegati – riguardano forme di corrispondenza assistite da garanzie di segretezza, oggetto di tutela anche costituzionale (15 Cost.), sicché anche nel contesto lavorativo, con riferimento all’indirizzo di posta aziendale o istituzionale, sussiste una legittima aspettativa di riservatezza in relazione ai messaggi oggetto di corrispondenza (provv. 4 dicembre 2019, n. 216).

La conservazione dei metadati relativi all’utilizzo della posta elettronica dei dipendenti, ancorché sul presupposto della sua necessità per finalità di sicurezza informatica, può comportare un indiretto controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, il che è consentito nei limiti ed alle condizioni fissate dall’art. 4 St. Lav.

La generalizzata raccolta e conservazione, per un periodo esteso, dei metadati relativi all’utilizzo della posta elettronica da parte dei dipendenti non possono essere ricondotte all’ambito di applicazione del secondo comma dell’art. 4 rientrando, piuttosto, tra gli strumenti funzionali alla tutela dell’integrità del patrimonio informativo del titolare nel suo complesso, di cui al comma 1 del medesimo articolo, con conseguente operatività delle procedure di garanzia ivi previste. Il trattamento in questione, dunque, è stato ritenuto in contrasto non solo con la disciplina di settore in materia di controlli a distanza, ma anche con la normativa in materia di protezione dei dati personali.

Si è escluso, infine, che possa essere invocato, ai fini della liceità del complessivo trattamento, il perseguimento di un legittimo interesse in quanto, in linea generale, i trattamenti conseguenti all’impiego degli strumenti tecnologici nei luoghi di lavoro, da cui può derivare un controllo indiretto sull’attività lavorativa, trovano la propria base giuridica nella disciplina di settore di cui all’art. 4 St. Lav.

Superamento dei minimi retributivi previsti dal CCNL ed eventuale ripetizione dell’indebito

La natura corrispettiva della retribuzione determina la presunzione della natura retributiva dell’erogazione datoriale ripetuta nel tempo anche se superiore a quella negozialmente prevista. In ragione di tale presunzione (relativa), spetta al solvens dimostrare l’effettivo e concreto verificarsi di un errore, oppure l’insussistenza o l’inidoneità giuridica dei fatti che il lavoratore abbia eventualmente addotto quale fondamento della persistente natura retributiva dell’attribuzione economica. Conseguentemente, qualora il datore richieda la restituzione delle somme erogate in eccesso rispetto alle retribuzioni minime previste dal contratto collettivo, non potrà limitarsi ad allegare che il suddetto contratto prevede (per le prestazioni svolte) retribuzioni inferiori, ma deve dimostrare che la maggiore retribuzione erogata è stata frutto di un errore, essenziale e riconoscibile dell’altro contraente. (Cfr.: App. Firenze, sez. lav., 28 marzo 2025, n. 204; Cass., sez. lav., 13 settembre 2018, n. 22387).

L’assenza per Covid non si computa nel periodo di comporto e il Giudice può desumere la relativa assenza anche per “presunzioni”

Il Supremo Collegio ha riconosciuto la possibilità di dimostrare la natura delle assenze tramite presunzioni semplici ex art. 2729 c.c., attribuendo rilievo probatorio alle risultanze istruttorie raccolte in giudizio, sul punto, la giurisprudenza e la dottrina hanno più volte ribadito che la prova per presunzioni non richiede l’unicità della fonte, essendo sufficiente un insieme di elementi gravi, precisi e concordanti, anche dedotti da dati di comune esperienza, purché rapportati al caso concreto.

In applicazione di tali principi, la Cassazione ha ritenuto che le assenze dovute al Covid-19 non possano essere computate ai fini del comporto, dichiarando di conseguenza la nullità del licenziamento intimato per il presunto superamento del periodo massimo di assenza.

Il dato singolare è che la Suprema Corte si sia astenuta dal riferire in che misura le suddette presunzioni siano in grado di superare il dettato “speciale” (e tassativo) della normativa emergenziale sul Covid-19 che, appunto, prevedeva lo scomputo delle sole giornate di malattia effettivamente “certificate” come dovute a Covid-19.

Cassazione ordinanza n. 22552/25

 

 

Limite all’accesso ai documenti aziendali nell’ambito di un procedimento disciplinare

Il datore è tenuto ad offrire in consultazione all’incolpato i documenti aziendali (anche se in formato elettronico e contenuti in un tablet o altro strumento di lavoro) solo in quanto e nei limiti in cui l’esame degli stessi sia necessario al fine di una contestazione dell’addebito disciplinare e sia, quindi, idonea a permettere al dipendente un’adeguata difesa, con l’ulteriore condizione che il lavoratore li abbia indicati in modo specifico. L’art. 7 prefato, infatti, come già sopra precisato, non prevede un siffatto obbligo in capo al datore, restando comunque salva la possibilità per il lavoratore di ottenere, nel corso del giudizio di impugnazione del licenziamento disciplinare, l’ordine di esibizione della documentazione stessa in quanto – e nei limiti – utili alla difesa (Cfr.: Cass., sez. lav., 08 aprile 2025, n. 9268; Cass., sez. lav., 21 novembre 2024, n. 30079; Cass., sez. lav., 27 marzo 2018, n. 7581).

Le novità introdotte sul periodo di prova nei contratti a termine dal “Collegato Lavoro” (Legge n. 203 / 2024)

Il Collegato Lavoro 2024 (Legge n. 203/2024 in G.U. 303/2024) introduce rilevanti indicazioni in relazione alla disciplina del periodo di prova nei contratti a tempo determinato, esplicitando le definizioni contenute nell’art. 7, comma 2 del D.Lgs. n. 104/2022 che di seguito si riporta:

“nel rapporto di lavoro a tempo determinato, il periodo di prova è stabilito in misura proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego”.

Più in particolare, l’art. 13 del Collegato Lavoro prevede che, fatte salve le disposizioni più favorevoli della contrattazione collettiva, la proporzionalità obbligatoria consiste in 1 giorno di prova effettiva per ogni 15 giorni di calendario di rapporto di lavoro con i seguenti limiti minimi e massimi: non meno di 2 giorni e non più di 15 giorni per contratti “aventi durata non superiore a sei mesi”; fino a 30 giorni per contratti “aventi durata superiore a sei mesi e inferiore a dodici mesi”.

Queste modifiche sembrano basarsi – riproducendone il tenore letterale della formulazione – sui considerando 27 e 28 della Direttiva (UE) 2019/1152, che, enunciando il principio di ragionevolezza della durata dei periodi di prova per finalità di sicurezza e stabilità sociale (“l’ingresso nel mercato del lavoro o la transizione verso una nuova posizione non dovrebbe implicare un lungo periodo di insicurezza” secondo il considerando 27), specifica la necessità di garantire proporzionalità per i contratti di durata inferiore a 12 mesi.

Più in particolare, il considerando 28 della Direttiva, considera ragionevole durata massima generale del periodo di prova un intervallo compreso tra 3 e 6 mesi in base all’esperienza di “un cospicuo numero di Stati membri”, con l’eccezione del caso di posizioni dirigenziali, esecutive o della pubblica amministrazione, o se ciò è nell’interesse del lavoratore, come nel contesto di misure specifiche per la promozione dell’occupazione a tempo indeterminato, in particolare per i lavoratori giovani. Inoltre, sempre il considerando 28 della Direttiva specifica che nel caso di rapporti di lavoro a tempo determinato inferiori a 12 mesi, gli Stati membri dovrebbero assicurare che la durata di tale periodo di prova sia adeguata e proporzionale alla durata prevista del contratto e alla natura dell’impiego.

Evoluzioni sulla prova del vincolo di subordinazione in tema di prestazioni intellettuali

In caso di prestazioni di natura intellettuale o professionale l’assoggettamento del lavoratore alle direttive datoriali si presenta in forma attenuata, in quanto non agevolmente apprezzabile a causa dell’atteggiarsi del rapporto, sicché è necessario ricorrere a criteri complementari e sussidiari, anche se non espressamente indicati dalla legge, come quelli della collaborazione, della continuità delle prestazioni, dell’osservanza di un orario determinato, del versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, del coordinamento dell’attività lavorativa all’assetto organizzativo dato dal datore, dell’assenza in capo al lavoratore di una sia pur minima organizzazione imprenditoriale.

Cass. Civ. sez. lav., 7 ottobre 2024, n. 26138

 

 

Staff leasing: alla Corte di Giustizia la questione sulla compatibilità della normativa interna in tema di lavoro somministrato rispetto al quadro unionale

Il Tribunale di Reggio Emilia, in applicazione dell’art. 267 par. 1, lett. b) e paragrafo 2 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, ha sottoposto alla Corte di Giustizia la seguente pregiudiziale:

«Se l’art. 5.5 della Direttiva 19 novembre 2008, n. 2008/104/CE debba essere interpretato nel senso che osti all’applicazione dell’art. 34 1 comma e seguenti relativi alla somministrazione a tempo indeterminato nelle parti in cui il cd. staff leasing : a) non prevede limiti alla missione del medesimo lavoratore presso la stessa impresa utilizzatrice; b) non subordina la legittimità del ricorso alla somministrazione di lavoro a tempo indeterminato all’indicazione delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo del ricorso alla somministrazione stessa; c) non prevede il requisito della temporaneità dell’esigenza produttiva propria dell’impresa utilizzatrice quale condizione di legittimità del ricorso a tale forma di contratto di lavoro.»