Articoli

Dati personali, controlli a distanza ed e-mail aziendale

Come precisato dall’Autorità Garante della privacy, il contenuto dei messaggi di posta elettronica – come pure i dati esteriori delle comunicazioni e i documenti allegati – riguardano forme di corrispondenza assistite da garanzie di segretezza, oggetto di tutela anche costituzionale (15 Cost.), sicché anche nel contesto lavorativo, con riferimento all’indirizzo di posta aziendale o istituzionale, sussiste una legittima aspettativa di riservatezza in relazione ai messaggi oggetto di corrispondenza (provv. 4 dicembre 2019, n. 216).

La conservazione dei metadati relativi all’utilizzo della posta elettronica dei dipendenti, ancorché sul presupposto della sua necessità per finalità di sicurezza informatica, può comportare un indiretto controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, il che è consentito nei limiti ed alle condizioni fissate dall’art. 4 St. Lav.

La generalizzata raccolta e conservazione, per un periodo esteso, dei metadati relativi all’utilizzo della posta elettronica da parte dei dipendenti non possono essere ricondotte all’ambito di applicazione del secondo comma dell’art. 4 rientrando, piuttosto, tra gli strumenti funzionali alla tutela dell’integrità del patrimonio informativo del titolare nel suo complesso, di cui al comma 1 del medesimo articolo, con conseguente operatività delle procedure di garanzia ivi previste. Il trattamento in questione, dunque, è stato ritenuto in contrasto non solo con la disciplina di settore in materia di controlli a distanza, ma anche con la normativa in materia di protezione dei dati personali.

Si è escluso, infine, che possa essere invocato, ai fini della liceità del complessivo trattamento, il perseguimento di un legittimo interesse in quanto, in linea generale, i trattamenti conseguenti all’impiego degli strumenti tecnologici nei luoghi di lavoro, da cui può derivare un controllo indiretto sull’attività lavorativa, trovano la propria base giuridica nella disciplina di settore di cui all’art. 4 St. Lav.

Superamento dei minimi retributivi previsti dal CCNL ed eventuale ripetizione dell’indebito

La natura corrispettiva della retribuzione determina la presunzione della natura retributiva dell’erogazione datoriale ripetuta nel tempo anche se superiore a quella negozialmente prevista. In ragione di tale presunzione (relativa), spetta al solvens dimostrare l’effettivo e concreto verificarsi di un errore, oppure l’insussistenza o l’inidoneità giuridica dei fatti che il lavoratore abbia eventualmente addotto quale fondamento della persistente natura retributiva dell’attribuzione economica. Conseguentemente, qualora il datore richieda la restituzione delle somme erogate in eccesso rispetto alle retribuzioni minime previste dal contratto collettivo, non potrà limitarsi ad allegare che il suddetto contratto prevede (per le prestazioni svolte) retribuzioni inferiori, ma deve dimostrare che la maggiore retribuzione erogata è stata frutto di un errore, essenziale e riconoscibile dell’altro contraente. (Cfr.: App. Firenze, sez. lav., 28 marzo 2025, n. 204; Cass., sez. lav., 13 settembre 2018, n. 22387).

L’assenza per Covid non si computa nel periodo di comporto e il Giudice può desumere la relativa assenza anche per “presunzioni”

Il Supremo Collegio ha riconosciuto la possibilità di dimostrare la natura delle assenze tramite presunzioni semplici ex art. 2729 c.c., attribuendo rilievo probatorio alle risultanze istruttorie raccolte in giudizio, sul punto, la giurisprudenza e la dottrina hanno più volte ribadito che la prova per presunzioni non richiede l’unicità della fonte, essendo sufficiente un insieme di elementi gravi, precisi e concordanti, anche dedotti da dati di comune esperienza, purché rapportati al caso concreto.

In applicazione di tali principi, la Cassazione ha ritenuto che le assenze dovute al Covid-19 non possano essere computate ai fini del comporto, dichiarando di conseguenza la nullità del licenziamento intimato per il presunto superamento del periodo massimo di assenza.

Il dato singolare è che la Suprema Corte si sia astenuta dal riferire in che misura le suddette presunzioni siano in grado di superare il dettato “speciale” (e tassativo) della normativa emergenziale sul Covid-19 che, appunto, prevedeva lo scomputo delle sole giornate di malattia effettivamente “certificate” come dovute a Covid-19.

Cassazione ordinanza n. 22552/25

 

 

Limite all’accesso ai documenti aziendali nell’ambito di un procedimento disciplinare

Il datore è tenuto ad offrire in consultazione all’incolpato i documenti aziendali (anche se in formato elettronico e contenuti in un tablet o altro strumento di lavoro) solo in quanto e nei limiti in cui l’esame degli stessi sia necessario al fine di una contestazione dell’addebito disciplinare e sia, quindi, idonea a permettere al dipendente un’adeguata difesa, con l’ulteriore condizione che il lavoratore li abbia indicati in modo specifico. L’art. 7 prefato, infatti, come già sopra precisato, non prevede un siffatto obbligo in capo al datore, restando comunque salva la possibilità per il lavoratore di ottenere, nel corso del giudizio di impugnazione del licenziamento disciplinare, l’ordine di esibizione della documentazione stessa in quanto – e nei limiti – utili alla difesa (Cfr.: Cass., sez. lav., 08 aprile 2025, n. 9268; Cass., sez. lav., 21 novembre 2024, n. 30079; Cass., sez. lav., 27 marzo 2018, n. 7581).

Le novità introdotte sul periodo di prova nei contratti a termine dal “Collegato Lavoro” (Legge n. 203 / 2024)

Il Collegato Lavoro 2024 (Legge n. 203/2024 in G.U. 303/2024) introduce rilevanti indicazioni in relazione alla disciplina del periodo di prova nei contratti a tempo determinato, esplicitando le definizioni contenute nell’art. 7, comma 2 del D.Lgs. n. 104/2022 che di seguito si riporta:

“nel rapporto di lavoro a tempo determinato, il periodo di prova è stabilito in misura proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego”.

Più in particolare, l’art. 13 del Collegato Lavoro prevede che, fatte salve le disposizioni più favorevoli della contrattazione collettiva, la proporzionalità obbligatoria consiste in 1 giorno di prova effettiva per ogni 15 giorni di calendario di rapporto di lavoro con i seguenti limiti minimi e massimi: non meno di 2 giorni e non più di 15 giorni per contratti “aventi durata non superiore a sei mesi”; fino a 30 giorni per contratti “aventi durata superiore a sei mesi e inferiore a dodici mesi”.

Queste modifiche sembrano basarsi – riproducendone il tenore letterale della formulazione – sui considerando 27 e 28 della Direttiva (UE) 2019/1152, che, enunciando il principio di ragionevolezza della durata dei periodi di prova per finalità di sicurezza e stabilità sociale (“l’ingresso nel mercato del lavoro o la transizione verso una nuova posizione non dovrebbe implicare un lungo periodo di insicurezza” secondo il considerando 27), specifica la necessità di garantire proporzionalità per i contratti di durata inferiore a 12 mesi.

Più in particolare, il considerando 28 della Direttiva, considera ragionevole durata massima generale del periodo di prova un intervallo compreso tra 3 e 6 mesi in base all’esperienza di “un cospicuo numero di Stati membri”, con l’eccezione del caso di posizioni dirigenziali, esecutive o della pubblica amministrazione, o se ciò è nell’interesse del lavoratore, come nel contesto di misure specifiche per la promozione dell’occupazione a tempo indeterminato, in particolare per i lavoratori giovani. Inoltre, sempre il considerando 28 della Direttiva specifica che nel caso di rapporti di lavoro a tempo determinato inferiori a 12 mesi, gli Stati membri dovrebbero assicurare che la durata di tale periodo di prova sia adeguata e proporzionale alla durata prevista del contratto e alla natura dell’impiego.

Evoluzioni sulla prova del vincolo di subordinazione in tema di prestazioni intellettuali

In caso di prestazioni di natura intellettuale o professionale l’assoggettamento del lavoratore alle direttive datoriali si presenta in forma attenuata, in quanto non agevolmente apprezzabile a causa dell’atteggiarsi del rapporto, sicché è necessario ricorrere a criteri complementari e sussidiari, anche se non espressamente indicati dalla legge, come quelli della collaborazione, della continuità delle prestazioni, dell’osservanza di un orario determinato, del versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, del coordinamento dell’attività lavorativa all’assetto organizzativo dato dal datore, dell’assenza in capo al lavoratore di una sia pur minima organizzazione imprenditoriale.

Cass. Civ. sez. lav., 7 ottobre 2024, n. 26138

 

 

Staff leasing: alla Corte di Giustizia la questione sulla compatibilità della normativa interna in tema di lavoro somministrato rispetto al quadro unionale

Il Tribunale di Reggio Emilia, in applicazione dell’art. 267 par. 1, lett. b) e paragrafo 2 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, ha sottoposto alla Corte di Giustizia la seguente pregiudiziale:

«Se l’art. 5.5 della Direttiva 19 novembre 2008, n. 2008/104/CE debba essere interpretato nel senso che osti all’applicazione dell’art. 34 1 comma e seguenti relativi alla somministrazione a tempo indeterminato nelle parti in cui il cd. staff leasing : a) non prevede limiti alla missione del medesimo lavoratore presso la stessa impresa utilizzatrice; b) non subordina la legittimità del ricorso alla somministrazione di lavoro a tempo indeterminato all’indicazione delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo del ricorso alla somministrazione stessa; c) non prevede il requisito della temporaneità dell’esigenza produttiva propria dell’impresa utilizzatrice quale condizione di legittimità del ricorso a tale forma di contratto di lavoro.»

Le novità introdotte dal Collegato Lavoro (Legge n. 203 / 2024) sulla durata del periodo di prova nei contratti a termine

Il Collegato Lavoro 2024 (Legge n. 203/2024 in G.U. 303/2024) introduce rilevanti indicazioni in relazione alla disciplina del periodo di prova nei contratti a tempo determinato, esplicitando le definizioni contenute nell’art. 7, comma 2 del D.Lgs. n. 104/2022 che di seguito si riporta:

“nel rapporto di lavoro a tempo determinato, il periodo di prova è stabilito in misura proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego”.

Più in particolare, l’art. 13 del Collegato Lavoro prevede che, fatte salve le disposizioni più favorevoli della contrattazione collettiva, la proporzionalità obbligatoria consiste in 1 giorno di prova effettiva per ogni 15 giorni di calendario di rapporto di lavoro con i seguenti limiti minimi e massimi: non meno di 2 giorni e non più di 15 giorni per contratti “aventi durata non superiore a sei mesi”; fino a 30 giorni per contratti “aventi durata superiore a sei mesi e inferiore a dodici mesi”.

Queste modifiche sembrano basarsi – riproducendone il tenore letterale della formulazione – sui considerando 27 e 28 della Direttiva (UE) 2019/1152, che, enunciando il principio di ragionevolezza della durata dei periodi di prova per finalità di sicurezza e stabilità sociale (“l’ingresso nel mercato del lavoro o la transizione verso una nuova posizione non dovrebbe implicare un lungo periodo di insicurezza” secondo il considerando 27), specifica la necessità di garantire proporzionalità per i contratti di durata inferiore a 12 mesi.

Più in particolare, il considerando 28 della Direttiva, considera ragionevole durata massima generale del periodo di prova un intervallo compreso tra 3 e 6 mesi in base all’esperienza di “un cospicuo numero di Stati membri”, con l’eccezione del caso di posizioni dirigenziali, esecutive o della pubblica amministrazione, o se ciò è nell’interesse del lavoratore, come nel contesto di misure specifiche per la promozione dell’occupazione a tempo indeterminato, in particolare per i lavoratori giovani. Inoltre, sempre il considerando 28 della Direttiva specifica che nel caso di rapporti di lavoro a tempo determinato inferiori a 12 mesi, gli Stati membri dovrebbero assicurare che la durata di tale periodo di prova sia adeguata e proporzionale alla durata prevista del contratto e alla natura dell’impiego.

Quando l’impossibilità di repechage in azienda giustifica realmente il licenziamento

Il datore di lavoro non è tenuto a creare nuove posizioni o a modificare l’organizzazione aziendale per conservare il posto al lavoratore, ma deve dimostrare solo l’assenza di posti liberi compatibili con la professionalità del dipendente, non potendo il giudice, una volta emersa la prova della soppressione del posto, imporre al datore di mantenere una posizione di lavoro anche inferiore, poiché si sostituirebbe all’imprenditore nel compito di organizzazione aziendale che a lui compete.

Corte d’Appello dell’Aquila sentenza n. 258/2021

 

Ai confini della realtà ! Il dipendente in malattia può svolgere attività secondarie se compatibili con lo stato patologico lamentato e con buona fede

È giustificato, nell’ambito dei principi generali di valutazione della gravità e proporzionalità della condotta con riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, il licenziamento del dipendente per una condotta a lui addebitata di tipo artificioso, in violazione degli obblighi di lealtà e correttezza, perché diretta, tramite la simulazione di uno stato fisico incompatibile con lo svolgimento dell’attività lavorativa, non solo all’assenza dal lavoro, ma anche al vantaggio indebito della partecipazione in orario di lavoro a partita di calcio già programmata (nell’ambito di campionato regionale), implicante uno sforzo fisico gravoso.

Nel licenziamento disciplinare, se un dipendente svolge un’altra attività durante un’assenza per malattia, il datore di lavoro deve dimostrare che la malattia è simulata o che l’attività potrebbe pregiudicare il ritorno al lavoro. Il dipendente può svolgere attività secondarie, purché compatibili con la malattia e con buona fede.

Cass. Civ. sez. lav., 5 settembre 2024, n. 23852 | Cass. Civ. sez. lav., 5 settembre 2024, n. 23858