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Onere di repêchage in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo

L’onere di repêchage in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Giova ribadire, quanto all’onere di repêchage, che in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore, il datore di lavoro ha l’onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussistesse alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l’espletamento di mansioni equivalenti, ma anche, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, di aver prospettato al dipendente, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale.

Cass., Sez. Lav., 11 novembre 2019, n. 29100

 

Elementi sussidiari del vincolo di subordinazione

Qualora sia difficile, per la peculiarità del rapporto, individuare il discrimine tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, ai fini della individuazione della c.d. natura giuridica del rapporto, il primario parametro distintivo della subordinazione deve essere necessariamente accertato o escluso mediante il ricorso ad elementi sussidiari che il giudice deve individuare in concreto, dando prevalenza ai dati fattuali emergenti dall’effettivo svolgimento del rapporto, con la precisazione che i suddetti indici rivelatori della subordinazione consistono nella retribuzione fissa mensile in relazione sinallagmatica con la prestazione lavorativa, nell’orario di lavoro fisso e continuativo, nella continuità della prestazione in funzione di collegamento tecnico organizzativo e produttivo con le esigenze aziendali, dal vincolo di soggezione personale del lavoratore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia, dall’inserimento nell’organizzazione aziendale.

Tribunale Catania, Sez. Lav., 30 ottobre 2019, n. 4772

 

Obbligo di preavviso della scadenza del comporto e licenziamento discriminatorio indiretto

Seppur non costituisce obbligo gravante sul datore di lavoro quello rappresentato dalla comunicazione preventiva dell’avvicinarsi dello scadere del periodo di comporto, detta omissione costituisce, nel caso di lavoratore affetto da significative e gravi patologie, violazione dei principi di correttezza e buona fede contrattuali, oltre che del principio di solidarietà ex art. 2 Cost. Pertanto, deve ritenersi illegittimo, in quanto viziato da discriminazione indiretta come definita ai sensi del d.lgs. n. 216 del 2003 e del diritto europeo, il licenziamento intimato per superamento del comporto al  lavoratore che versi in condizioni di salute di estrema gravità, in assenza del citato avviso di prossima scadenza del periodo di conservazione del posto di lavoro.

Tribunale Santa Maria Capua Vetere, Sez. Lav., 11 agosto 2019, n. 20012

Appalti endoaziendali e divieto di intermediazione

Gli appalti c.d. “endoaziendali” sono caratterizzati dall’affidamento ad un appaltatore esterno di attività strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente.

Il divieto d’intermediazione opera tutte le volte in cui l’appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto, ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo.

Occorre pertanto di volta in volta procedere ad una dettagliata analisi di tutti gli elementi che caratterizzano il rapporto instaurato tra le parti allo scopo di accertare se l’impresa appaltatrice, assumendo su di sé il rischio economico dell’impresa, operi in condizioni di reale autonomia organizzativa e gestionale rispetto all’impresa committente; se sia provvista di una propria organizzazione d’impresa; se in concreto assuma su di sé l’alea economica insita nell’attività produttiva oggetto dell’appalto; infine se i lavoratori impiegati per il raggiungimento di tali risultati siano effettivamente diretti dall’appaltatore ed agiscano alle sue dipendenze.

L’assenza di quest’ultimo elemento, quindi l’assoggettamento dei dipendenti dello pseudo-appaltatore al potere direttivo e di controllo dell’effettivo utilizzatore delle prestazioni lavorative costituisce, secondo quanto evidenziato in giurisprudenza, uno degli indici principali dell’interposizione e, quindi della non genuinità dell’appalto.

Cfr. Tribunale di Bari – Sez. Lavoro 22.10.2019

Diritti del lavoratore in caso di trasferimento del ramo d’azienda

In tema di interposizione d’opera, richiamando le Sezioni Unite della Suprema Corte (Cass. n. 2990 del 2018), nel caso in cui ne venga accertata l’illegittimità e dichiarata l’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, il mancato ripristino del rapporto medesimo ad opera del committente comporta l’obbligo di quest’ultimo di corrispondere le retribuzioni “a decorrere dalla messa in mora”.

Cfr. Cass., Sez. Lav,, 6 novembre 2019, n. 28500

Dimissioni desumibili da comportamenti omissivi

La volontà del lavoratore di recedere dal contratto può essere desunta non solo da espresse e chiare manifestazioni della medesima (oralmente o per iscritto), ma anche da  comportamenti che essa palesino in modo inequivocabile, ad esempio l’allontanamento dal posto di lavoro per diversi giorni. Laddove non sia stata prevista una forma convenzionale per le dimissioni del lavoratore, esse possono desumersi dal concorso di più elementi indiziari, logicamente indicativi della volontà di recedere dal rapporto, non escludendosi che un comportamento omissivo possa fare presumere tale intento, secondo i principi dell’affidamento. Ne consegue che anche un inadempimento delle obbligazioni contrattuali è suscettibile di essere interpretato come espressione, per facta concludentia, della volontà del dipendente di interrompere il rapporto.

Cfr. Cass. Sez. Lav., 10 ottobre 2019, n. 25583.

Conformità all’art. 36 Cost. della retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva : il crisma della rappresentatività non è sufficiente

Il trattamento retributivo stabilito in sede di contrattazione collettiva, dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, si presume essere proporzionale ed adeguato ai sensi dell’art. 36 Cost. Tuttavia è necessario, al fine di valutarne l’effettiva conformità al dettato costituzionale, tenere conto anche del contenuto globale del C.C.N.L. applicato, nonché delle ragioni esterne che hanno indotto le parti a prevedere una retribuzione inferiore, rispetto a quella applicata nel settore di riferimento, ed eventualmente idonee a costituirne fondamento giustificativo.

Tribunale Torino, sez. lav., 9 agosto 2019, n. 1128

In senso conforme Cass. Sez. Lav., 25 marzo 2019, n. 8299

 

Il CCNL può modificare il contenuto della retribuzione annua di cui all’ art. 2120 c.c.

l secondo comma dell’art. 2120, c.c., relativamente alla retribuzione annua  costituente la base di calcolo del TFR, dispone che essa ricomprende tutte le somme corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro (compreso l’equivalente delle prestazioni in natura), a titolo non occasionale, escluso invece quanto il lavoratore ha ricevuto a titolo di rimborso spese.

Tuttavia la medesima disposizione fa salve eventuali diverse previsioni contenute nei contratti collettivi.

Pertanto la regola generale è quella della omnicomprensività, mentre eccezioni alla stessa possono essere contemplate dalla contrattazione collettiva, autorizzata ex legge anche a prevedere, sempre ai fini del calcolo del TFR, una diversa nozione di retribuzione. Si precisa che i criteri di quantificazione di cui all’art. 2120, c.c., potranno essere derogati solo dalla normativa collettiva successiva all’entrata in vigore della novella legislativa (1982), con esclusione di eventuali richiami a norme pattizie previgenti.

Cass. Sez. Lav. 25 settembre 2019 n. 23932.

Diritto di recesso e abuso del diritto

Si è affermato che : “L’abuso del diritto non è ravvisabile nel solo fatto che una parte del contratto abbia tenuto una condotta non idonea a salvaguardare gli interessi dell’altra, quando tale condotta persegua un risultato lecito attraverso mezzi legittimi, essendo, invece, configurabile allorché il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà sono attribuiti”.

(Nel caso di specie, il giudice ha ritenuto che non vi sono elementi per concludere che il diritto di recedere sia stato esercitato per un fine diverso da quello per il quale l’ordinamento lo riconosce, vale a dire quello di non essere vincolati in perpetuo da un accordo, anche quando le condizioni di fatto siano mutate).

Tribunale La Spezia 7 agosto 2019, n. 2752

In senso conforme

Cass., sez. III 13 giugno 2019 n. 15885
Cass., sez. I 12 dicembre 2017 n. 29792

Licenziamento collettivo e lavoratori obbligatoriamente assunti

Nel bilanciamento dell’interesse del datore al ridimensionamento dell’organico, in una situazione di crisi economica, con quello dell’assunto obbligatoriamente alla conservazione del posto di lavoro, il legislatore privilegia quest’ultimo. Ne consegue che il recesso di cui all’art. 4, comma 9, l. n. 223 del 1991, esercitato nei confronti del lavoratore disabile è annullabile qualora, nel momento della cessazione del rapporto, il numero dei dipendenti rimanenti, occupati obbligatoriamente, sia inferiore alla quota di riserva prevista all’art. 3l. n. 223 del 1991.

Tale norma, infatti, mira a promuovere l’inserimento nel mondo del lavoro del disabile, evitando che in occasione di licenziamenti individuali, o collettivi, motivati da ragioni economiche, il datore possa violare le disposizioni afferenti la presenza percentuale in azienda di personale appartenente alle categorie protette, la cui assunzione sia avvenuta  conformità all’obbligo di legge.

I conferente è la circostanza del rifiuto alla ricollocazione considerato che non è possibile parlare di obbligo di repechage in ipotesi di licenziamento ex l. n. 223 del 1991.

Cass. Sez. Lav. 15 ottobre 2019, n. 26029