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Il tempo-tuta “compensabile” con pause retribuite

Il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale deve ritenersi incluso nell’orario di lavoro nel caso in cui esso sia assoggettato al potere di conformazione del datore. Tuttavia, è indispensabile procedere ad una valutazione globale della disciplina osservata in seno all’organizzazione aziendale, potendosi riscontrare, ove risulti che il lavoratore goda di un trattamento di miglior favore rispetto a quello normativo, una compensazione della mancata inclusione nell’orario retribuito del c.d. tempo tuta.

Cass. Sez. Lav. 28.3.2018 n° 7738

 

 

Esercizio della clausola di gradimento

In linea di principio, l’esercizio della cd. clausola di gradimento da parte del datore di lavoro deve pur sempre essere soggetta a valutazione nell’ottica dei principi generali di correttezza e buona fede ex artt.1175, 1375 c.c., non potendo certo tradursi detto gradimento in mero ed ingiustificato arbitrio in danno di un lavoratore.

Tb. Reggio Calabria Sez. Lavoro 30.5.2019 decr. rigetto n° 10071

Il rifiuto della prestazione non obbliga sempre alla retribuzione

Secondo l’orientamento costante della giurisprudenza, il datore di lavoro non può unilateralmente ridurre o sospendere l’attività lavorativa, specularmente rifiutando di corrispondere al dipendente la retribuzione.

Tale condotta, infatti, integra un inadempimento contrattuale: data la sinallagmaticità del rapporto di lavoro, il rifiuto di una parte di eseguire la dovuta prestazione può essere opposto all’altra solo qualora questa ometta di effettuare la propria, il che non si verifica qualora il lavoratore venga impedito dalla unilaterale volontà del datore.

Tuttavia, è fatta salva la possibilità per la parte datoriale di provare l’impossibilità dell’accettazione per motivi sopravvenuti, non allo stesso imputabili, in ragione dei quali la sospensione risulta essere  la imprevedibile e inevitabile, con esonero dall’obbligazione retributiva.

Si precisa che a tale fine non rilevano eventuali carenze di programmazione o di organizzazione aziendale, ovvero contingenti difficoltà di mercato.

Cass. Sez. Lav. n° 14419 del 27.5.2019

La Corte di giustizia sul mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda

La Corte di giustizia dell’Unione Europea ha dichiarato che la direttiva 2001/23/CE del Consiglio, del 12 marzo 2001, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti, e in particolare il suo articolo 2, paragrafo 1, lettera d), deve essere interpretata nel senso che una persona che ha stipulato, con il cedente, un contratto di collaborazione, ai sensi della normativa nazionale di cui al procedimento principale, può essere considerata come «lavoratore» e quindi beneficiare della protezione che tale direttiva concede, a condizione, tuttavia, che essa sia tutelata in quanto lavoratore da detta normativa e che benefici di un contratto di lavoro alla data del trasferimento, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.

La direttiva 2001/23, in combinato disposto con l’art. 4, par. 2, TUE, deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale la quale preveda che, in caso di trasferimento ai sensi di tale direttiva, e per il fatto che il cessionario è un comune, i lavoratori interessati debbano, da un lato, partecipare ad una procedura di concorso pubblico e, dall’altro, costituire un nuovo rapporto contrattuale con il cessionario.

Corte di Giustizia UE 13.6.2019 n° 317

 

Ripartizione dell’onere probatorio nel licenziamento orale

“Il lavoratore subordinato che impugni un licenziamento allegando che è stato intimato senza l’osservanza della forma prescritta ha l’onere di provare, quale fatto costitutivo della sua domanda, che la risoluzione del rapporto di lavoro è ascrivibile alla volontà del datore di lavoro, anche se manifestata con comportamenti concludenti; la mera cessazione nell’esecuzione delle prestazioni non è circostanza di per sé sola idonea a fornire tale prova. Ove il datore di lavoro eccepisca che il rapporto si è risolto per le dimissioni del lavoratore, il giudice sarà chiamato a ricostruire i fatti con indagine rigorosa – anche avvalendosi dell’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio ex art. 421, c.p.c. – e solo nel caso perduri l’incertezza probatoria farà applicazione della regola residuale desumibile dal comma 1 dell’art. 2697, c.c., rigettando la domanda del lavoratore che non ha provato il fatto costitutivo della sua pretesa”.

Tb. Bari Sez. Lav. 13.6.2019 – in senso conforme Cass. n° 3822 / 2019

Il superminimo è soggetto al principio dell’assorbimento

Il cosiddetto superminimo, ossia l’eccedenza retributiva rispetto ai minimi tabellari, individualmente pattuito tra datore di lavoro e lavoratore, è soggetto al principio dell’assorbimento, nel senso che, in caso di riconoscimento del diritto del lavoratore a superiore qualifica, l’emolumento è assorbito dai miglioramenti retributivi previsti per la qualifica superiore, a meno che le parti abbiano convenuto diversamente o la contrattazione collettiva abbia altrimenti disposto, restando a carico del lavoratore l’onere di provare la sussistenza del titolo che autorizza il mantenimento del superminimo, escludendone l’assorbimento.

Tribunale di Milano Sez. Lav., 21 maggio 2019, n. 1241

La Corte di giustizia sull’obbligo di istituire un sistema per la misurazione della durata dell’orario di lavoro giornaliero

Massima. Per la Corte di giustizia gli Stati membri dell’Unione europea devono imporre alle aziende l’istallazione di sistemi di rilevazione dei tempi di lavoro di ciascun lavoratore. Ciò non solo per verificare il rispetto dei periodi di riposo, ma anche per disporre di un sistema certo e affidabile di misurazione dello straordinario nelle controversie di lavoro.

Corte giust. UE, Grande Sezione, 14 maggio 2019, C-55/18

Nozione di unità produttiva ed accertamento del requisito dimensionale

La giurisprudenza di legittimità comunemente ritiene che per “unità produttiva” deve intendersi non ogni sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto dell’impresa, ma soltanto la più consistente e vasta entità aziendale che, eventualmente articolata in organismi minori, anche non ubicati tutti nel territorio del medesimo comune, si caratterizzi per condizioni imprenditoriali di indipendenza tecnica e amministrativa tali che in essa si esaurisca per intero il ciclo relativo a una frazione o ad un momento essenziale dell’attività produttiva aziendale.

Ne consegue che deve escludersi la configurabilità di unità produttiva in relazione alle articolazioni aziendali che, sebbene dotate di una certa autonomia amministrativa, siano destinate a scopi interamente strumentali o a funzioni ausiliarie sia rispetto ai generali fini dell’impresa, sia rispetto a una frazione dell’attività produttiva della stessa.

Tribunale di Alessandria Sez. Lav. 13.5.2019

In senso conforme

Cass., sez. lav., 26 settembre 2011, n. 19614

Superamento del periodo di comporto : le assenze vanno precisate

Qualora l’atto di intimazione del licenziamento faccia generico riferimento al superamento del periodo di conservazione del rapporto, il dipendente ha la facoltà di chiedere al datore di lavoro di specificare tale aspetto fattuale delle ragioni del recesso, dovendosi garantire il diritto di difesa del primo  e, nello specifico, la possibilità di opporre propri specifici rilievi. Ne consegue che, nel caso di inottemperanza, secondo le modalità di legge, a tale richiesta, il licenziamento dovrà considerarsi illegittimo.

Cass. Sez. Lav., 27 febbraio 2019, n. 5752.

Nessuna presunzione di subordinazione deriva dalla tipologia dell’attività lavorativa in sé

Non sussiste alcuna presunzione di subordinazione che possa farsi derivare dalla tipologia dell’attività lavorativa in sé atteso che ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di un rapporto di lavoro subordinato che di un rapporto di lavoro autonomo a seconda delle modalità del suo svolgimento.

L’elemento tipico che contraddistingue il primo dei suddetti tipi di rapporto è costituito dalla subordinazione, intesa quale disponibilità del prestatore nei confronti del datore di lavoro con assoggettamento al potere direttivo di questo ed alle relative esigenze aziendali, mentre altri elementi – come l’osservanza di un orario, la continuità della prestazione e l’erogazione di un compenso continuativo – possono avere, invece, valore indicativo, ma mai determinante.

L’esistenza del suddetto vincolo va concretamente apprezzata dal giudice di merito con riguardo alla specificità dell’incarico conferito al lavoratore e al modo della sua attuazione, fermo restando che, in sede di legittimità, è censurabile soltanto la determinazione dei criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto, mentre costituisce accertamento di fatto – come tale incensurabile in tale sede se sorretto da motivazione adeguata e immune da vizi logici e giuridici – la valutazione delle risultanze processuali che hanno indotto il giudice di merito ad includere il rapporto controverso nell’uno o nell’altro schema contrattuale.

Tb. Catania Sez. Lav. 17.4.2019 n° 1863