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Onere di repêchage in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Quanto all’onere di repêchage in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo per la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore, il datore di lavoro ha l’onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussistesse alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l’espletamento di mansioni equivalenti, ma anche, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, di aver prospettato al dipendente, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale.

Diritto al trattamento della categoria superiore e i criteri alternativi alla prevalenza

In conformità a quanto disposto dall’art. 2103, c.c., qualora il lavoratore, oltre alle mansioni allo stesso assegnate in sede di assunzione, di fatto ne svolga anche altre, proprie di una categoria diversa e superiore rispetto a quella di appartenenza, il giudice dovrà innanzitutto applicare il criterio della prevalenza, valutando dunque le prestazioni svolte, sotto il profilo qualitativo, quantitativo e temporale.

Ove l’applicazione di tale regola non sia possibile nel caso di specie, perché possa riconoscersi il trattamento corrispondente alla categoria superiore, dovrà considerarsi se il lavoratore svolga nella sua interezza la mansione superiore, non rilevando il contemporaneo esercizio della funzione inferiore, qualunque ne sia la quantità.

Tuttavia, qualora la mansione il cui espletamento è attributivo della categoria superiore non venga svolta nella sua interezza dal dipendente, si dovrà fare riferimento alla quantità delle energie lavorative profuse nelle singole mansioni.

Cass., Sez. Lav., 12 dicembre 2019, n° 32699

 

Giusta causa e infondatezza di uno degli addebiti

Non è necessaria la prova del complesso degli episodi addebitati, ed il datore di lavoro non è tenuto a dimostrare di aver licenziato il lavoratore solo sulla base di una considerazione unitaria di essi.

È invece il lavoratore, in quanto parte interessata, a dover provare che solo se presi in considerazione congiuntamente, per la loro gravità complessiva, i singoli episodi sarebbero stati connotati da una gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro.

Cass., Sez. Lav., 7 gennaio 2020, n° 113

 

Qualificazione della natura giuridica del contratto

La giurisprudenza di legittimità, affrontando il problema del criterio distintivo tra lavoro autonomo e lavoro subordinato, ha affermato il principio consolidato secondo cui, ai fini della qualificazione di un rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, assume rilievo scriminante l’accertamento della sussistenza del requisito della subordinazione intesa come assoggettamento della prestazione lavorativa al potere del datore di lavoro di disporne secondo le mutevoli esigenze di tempo e di luogo proprie dell’organizzazione imprenditoriale e di controllarne intrinsecamente lo svolgimento attraverso direttive alle quali il lavoratore è obbligato ad attenersi, così come è obbligato a mantenere nel tempo la messa a disposizione delle proprie energie lavorative per il raggiungimento degli scopi produttivi dell’impresa.

Cass., Sez. Lav., 13 aprile 2017, n° 9590
Cass., Sez. Lav., 25 luglio 2014, n° 17008

 

Rimessione alla Corte di giustizia UE della questione interpretativa su un caso di licenziamento collettivo

Alla luce del fatto che nel giro di soli tre anni (2015-2018) il Legislatore nazionale ha introdotto diversi modelli sanzionatori concorrenti per i licenziamenti collettivi, determinando così la coesistenza di regimi profondamente diversi tra loro che possono trovare contestuale applicazione per una stessa violazione in una medesima procedura di licenziamento collettivo, sono state sottoposte alla Corte di giustizia dell’Unione europea le seguenti questioni interpretative :

Se gli articoli 20-21, 34 e 47 della CDFUE ostino all’introduzione di una normativa o di una prassi applicativa da parte di uno Stato membro, attuativa della direttiva 98/59/CE, che preveda, per i soli lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 coinvolti nella medesima procedura, un sistema sanzionatorio che esclude, diversamente da quanto assicurato agli altri lavoratori sottoposti alla medesima procedura, ma assunti in data antecedente, la reintegra nel posto di lavoro e, comunque, il ristoro delle conseguenze derivanti dalla perdita del reddito e dalla perdita della copertura previdenziale, riconoscendo esclusivamente un indennizzo caratterizzato da un importo determinato in via prioritaria sul parametro dell’anzianità lavorativa, differenziando, quindi, sulla base della data di assunzione, la sanzione in modo da generare una diversità di livelli di tutela basati sul summenzionato criterio e non sulle conseguenze effettive subite a seguito della ingiusta perdita della fonte di sostentamento.

Requisiti del mobbing lavorativo

Affinché possa configurarsi il c.d. ”mobbing lavorativo”, devono ravvisarsi comportamenti del datore di lavoro, anche protratti nel tempo, che siano rivelatori in maniera inequivocabile di un’esplicita volontà di quest’ultimo di emarginare il dipendente.

Occorre pertanto dedurre e provare la ricorrenza di una pluralità di condotte, anche di diversa natura, tutte oggettivamente volte all’espulsione dal contesto lavorativo, o comunque connotate da un elevato tasso di vessatorietà e prevaricazione, nonché soggettivamente sorrette  da un intento persecutorio e tra loro collegate dall’unico scopo di isolare il dipendente.

Corte Appello Milano, Sez. Lav., 2 dicembre 2019, n° 1615

 

Società cooperative : contrattazione collettiva e trattamento economico minimo

Il parametro rappresentato dal trattamento economico minimo previsto dalla contrattazione collettiva deve intendersi “complessivo”, quindi inclusivo della retribuzione base e delle altre voci aventi natura retributiva. Tale trattamento rappresenta un limite al di sotto del quale non è possibile scendere, neanche per effetto di specifiche disposizioni derogatorie contenute nel regolamento cooperativo che, in quanto di minor favore rispetto alla contrattazione collettiva di categoria normativamente assunta a parametro dell’art. 36, Cost., sarebbero nulle.

Tribunale Milano, Sez. Lav., 29 ottobre 2019, n° 2457.pdf

In senso conforme

Cass., Sez. Lav., 21 febbraio 2019, n° 5189

Sull’obbligo di vigilanza del regolare versamento dei contributi

Ai sensi della l. n. 1084 del 1971 sussiste in capo all’INPS un generale dovere di vigilare sul corretto versamento della contribuzione dovuta da parte delle imprese in favore dei dipendenti.

Se tale obbligo di vigilanza sussiste, ne discende il diritto per il lavoratore ad ottenere in caso di mancato regolare versamento, l’integrazione da parte dell’Istituto di previdenza.

In ultimo e in caso di risposta positiva ai precedenti quesiti, può il datore di lavoro essere responsabile nei confronti dell’INPS a titolo di rivalsa e, verso il lavoratore a titolo risarcitorio.

Tribunale Catania, Sez. Lav., 7 novembre 2019, n° 4898

 

Lavoro intermittente e contrattazione collettiva

Per la Corte di cassazione, l’art. 34, comma 1, d.lgs. n. 276 del 2003, si limita a demandare alla contrattazione collettiva l’individuazione delle “esigenze” per le quali è consentita la stipula di un contratto a prestazioni discontinue, senza riconoscere esplicitamente alle parti sociali alcun potere di interdizione in ordine alla possibilità di utilizzo di tale tipologia contrattuale; né un siffatto potere di veto può ritenersi implicato dal richiamato “rinvio” alla disciplina collettiva che concerne solo un particolare aspetto di tale nuova figura contrattuale e che nell’ottica del legislatore trova verosimilmente il proprio fondamento nella considerazione che le parti sociali, per la prossimità allo specifico settore oggetto di regolazione, sono quelle maggiormente in grado di individuare le situazioni che giustificano il ricorso a tale particolare tipologia di lavoro.

Cass., Sez. Lav., 13 novembre 2011, n. 29423

 

Infortuni sul lavoro: i limiti della rilevanza del comportamento del lavoratore

“La condotta incauta del lavoratore non comporta concorso idoneo a ridurre la misura del risarcimento ogni qual volta la violazione di un obbligo di prevenzione da parte del datore di lavoro sia giuridicamente da considerare come munita di incidenza esclusiva rispetto alla determinazione dell’evento dannoso, il che in particolare avviene quando l’infortunio si sia realizzato per l’inosservanza di specifici ordini o disposizioni datoriali che impongano colpevolmente al lavoratore di affrontare il rischio o quando l’infortunio scaturisca dall’avere il datore di lavoro integralmente impostato la lavorazione sulla base di disposizioni illegali e gravemente contrarie ad ogni regola di prudenza o infine quando vi sia inadempimento datoriale rispetto all’adozione di cautele, tipiche o atipiche, concretamente individuabili, nonché esigibili ex ante ed idonee ad impedire, nonostante l’imprudenza del lavoratore, il verificarsi dell’evento dannoso”.

Cass., Sez. Lav., 25 novembre 2019, n. 30679